C’era una volta un uomo, un uomo il cui nome era sulla bocca di tutti e la cui fama non solo lo precedeva ma lo sostituiva. Catapultati alla corte di Gatsby nel bel mezzo di una festa all’insegna dell’eccesso, lo spettatore catturato da musica, colori, fiumi di vino e da ogni genere di ballo non può che rimanere estasiato da tanta grandiosità fino a chiedersi: “Ma chi è Gatsby?” (E fino a qui la trasposizione di Luhrmann sembra davvero essere perfetta, originale e fedele allo stesso tempo.)
Gatsby è ciò che si è creato, risiede nelle sue cose, è la sua villa, è le sue feste, è il suo vestito, è qualcosa di effimero e inafferrabile, è un’idea che tutti possiedono ma che nessuno conosce. Ma soprattutto è quella luce verde dall’altra parte della baia. Una luce brillante, la speranza di un cambiamento, il ponte che unisce il protagonista al suo passato e lo proietta verso il suo futuro alimentandolo ogni giorno, facendolo crescere nella convinzione che egli possa raggiungere tutto, che possa toccare ciò che non ha consistenza e rendere possibile anche l’impossibile. Gatsby è “grande” in questa sua aspirazione all’infinito e nella sua volontà di potenza. Una volontà che sembra non avere limiti e lo mantiene “grande” fino alla fine quando il suo unico amico, Nick, l’osservatore oggettivo dei fatti, colui che diventa testimone e complice della sua vita, aggiungerà al manoscritto”the Great” sopra al suo nome; perché è quando si esaurisce “il super” ed esce “l’uomo” che rema controcorrente, che egli è davvero grande.
Il tema molto ben rappresentato nel film è quello del guardare. Guardare se stessi, essere guardati e guardare gli altri. Questo accomuna Gatsby e Nick e li pone all’interno di una cornice più vasta e di un occhio più grande, quello del dio pagano, rappresentato da un cartellone nel quartiere operaio, che tutto scruta. Gatsby è l’osservatore misterioso, che sembra curarsi più delle vite degli altri e del loro divertimento che della propria. E’ infatti proprio nel concetto di “sembrare” che risiede la natura del suo personaggio. Fare di tutto per sembrare quel qualcuno che desidera essere. Da qui la sua personale tragedia, rendersi conto di non poter comprare l’unico privilegio che più desidera al mondo, quello di esser nato ricco. Il suo percorso di Homo Faber non si può infatti compiere pienamente perché tutto ciò che ha costruito intorno e dentro di lui è privo di consistenza e nonostante i tentativi, la realtà figlia del passato lo ricaccerà sempre con maggiore violenza al punto di partenza rendendo ogni suo sforzo solo un passo verso l’inevitabile destino tragico.
La critica verso una certa classe aristocratica immobile che gode e scappa senza curarsi delle conseguenze solo per evitare di turbare la propria vita, è rappresentata dall’agire della coppia Daisy – Tom. Lei, interpretata da Carrey Mulligan non riesce però nell’intento di rappresentare una donna tanto superficiale quanto morbosamente ammaliante da essere motore e giustificazione dell’agire di Gatsby. E qui forse la mancanza maggiore del film, che a mio parere delude per aver dato più spazio all’aspetto visivo rispetto ai personaggi che danno la sensazione di essere burattini spaesati all’interno di un teatrino delle meraviglie con cui non esiste relazione.
Detto questo il film è puro divertissment e invece non delude se visto in quest’ottica(la colonna sonora, le scenografie, i costumi sono eccellenti); ma é poco altro o meglio troppo altro, perché l’esagerazione e l’aver caricato tutti gli elementi così tanto rendono il film poco apprezzabile da chi, amatore del libro, ne ricercava le atmosfere originali di misterioso “non detto” e quella sensazione di fiaba tragica ma reale di un amore impossibile.
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