Un capolavoro post-moderno. Una mastodontica opera cyber-punk sfarzosa e sopra le righe di un regista che ha riscritto ed adattato al tempo contemporaneo il concetto di “visionario”. Questa, non me ne vogliano Coppola e Robert Redford, è nettamente la versione più grandiosa, resa in tutta la sua immaginifica magnificenza teorizzata da Fitzgerald, messa in atto grazie agli illimitati mezzi del cinema odierno. Il merito è sì della penna di colui che è considerato uno dei migliori autori della cosiddetta “Età del Jazz”, adattato con maestria dallo script di capitan Baz, ma soprattutto di chi merita una medaglia al valore più veridica di quella montenegrina di Gatsby: il cast, per l'appunto. Bisogna ad esempio vedere con le proprie pupille proiettato su telo bianco il lavoro della splendida Carey Mulligan (che già ci aveva deliziato in “Shame” di McQueen) e dell'ottimo Joel Edgerton, quest'ultimo aiutato dal proverbiale “physique du role” come il buon Tobey “Peter Parker” Maguire. Ma nonostante la straordinarietà particolarmente della performance della protagonista femminile e del fantomatico Mr. X cui sto per arrivare, è la coralità del gruppo di attori a rendere il prodotto indimenticabile. La scena della discussione a tre in cui Jay porta Daisy a confessare confusamente di non aver mai amato Tom ne è un fulgido esempio. Baz Luhrmann ci scaraventa fin dal primo fotogramma in una New York che non esiste, non è mai esistita e, forse, non esisterà mai, ma dal fascino irresistibile. Dimenticate gli anni venti, la borsa, il crollo del '29, i film muti in bianco e nero, i costumi a righe e le maschere di Groucho Marx. Chiudete gli occhi per un momento e lasciatevi trasportare in un mondo di corse sfrenate in macchina e miniere di carbone controllate da occhi miopi, cappelli di paglia e abiti rosa pallido, fiori, bastoni da passeggio e abiti ricoperti di strass su corpi frementi di cantanti e ballerine di colore; sole, mare, esplosioni di luce. Non ne puoi avere la certezza, è chiaro, ma hai la netta sensazione che fosse questa l'idea di folle apparenza povera d'animo del disegno originale, e che il regista australiano ne stia solo ricalcando con maestria il disegno a china. Che stia solo scalpellando (paradossalmente) il superfluo, come insegna l'arte della grande scultura. Dal quadro resta fuori quello che forse è il suo maggior pregio, che riconduce al punto focale dell'intera pellicola. Magistrale, difatti, è con ogni probabilità più di ogni altra cosa la suspence con cui introduce il divino motore dell'intera operazione: il personaggio, s'intende, dell'eccellente Leonardo Di Caprio. A consacrazione abbondantemente avvenuta per tutti sin dai tempi di “The Aviator”, Leo, alla soglia dei quarant'anni, sfodera un'altra prestazione da incorniciare, che fa il paio con le più recenti in “Inception” e soprattutto in “Django – Unchained” di Tarantino. Disperatamente ricco, innegabilmente fasullo, degnamente innamorato e, infine, brutalmente assassinato, il tutto condito dall'eleganza di una interpretazione stilisticamente perfetta sin dal primo sguardo, come detto, fatto desiderare come l'acqua nel deserto. Quando arriva, però, ti colpisce come una palla di cannone perchè a travolgerti è l'impeto silente del caracter dipinto dall'autore, incarnato veramente alla perfezione. Nient'altro da dire, si corra nelle sale.
[+] lascia un commento a frenky 90 »
[ - ] lascia un commento a frenky 90 »
|