Le formule comiche di Sacha Baron Cohen ne Il dittatore di Larry Charles.
di Roy Menarini
Il cinema comico americano continua a rappresentare una fonte di interesse non comune. A differenza della commedia romantica e del melodramma – per citare altri due generi immortali – il comico sembra aver trovato negli anni un importante ricambio di talenti. A parte il cosiddetto brat pack (di Ben Stiller e compagnia), Hollywood ha potuto godere del talento di Judd Apatow, regista e produttore che solamente una lettura affrettata e poco analitica dei suoi film può relegare a divertimento sessista e scatologico. Il quarantenne londinese Sacha Baron Cohen, a sua volta, ha fatto della sua non-americanità il passaporto più riconoscibile per portare allo scompiglio il sistema delle attese spettatoriali in terra statunitense.
A vedere il suo ultimo film, opera pressoché perfetta nei suoi meccanismi di sarcasmo politico, si capisce come tutta la trilogia – formata da Borat, Brüno e appunto Il dittatore – poggi sull’idea di outsider, ovvero di personaggio che giunge da lontano, si incunea nella società americana e comincia a incontrarne tutte le contraddizioni. Cohen, però, che è autore (anche se non regista) dei suoi film, ed è inoltre comico fine, intelligente e sovversivo, fa di più: rendendo inaccettabili e non redimibili i suoi protagonisti, crea frizione tra loro, l’identificazione del pubblico e l’oggetto della satira, sempre e comunque gli Stati Uniti d’America.
Il funzionamento della sua comicità, in fondo, è tutta lì, una mossa a suo modo spregiudicata e geniale, attraverso la quale egli si pone nella posizione di deridere tutti, da destra a sinistra, dall’occidente al (medio) oriente, prima esasperandone gli stereotipi e poi confermandone la validità. Ne Il dittatore si alternano tutte le formule comiche possibili: da quelle più brutalmente corporee (nessun orifizio o pratica fisiologica viene risparmiata) a quelle logiche (si pensi all’esilarante legge per cui la parola "alladeen" vale per un senso e anche per il suo contrario), dai temi del doppio a quelli del rispecchiamento, fino ai momenti in cui, gettata la maschera (la barba), il dittatore spiega agli Usa quanto converrebbe anche a loro la forma della tirannia, ed elenca una serie di ingiustizie e scorrettezze che, tuttavia, l’America pratica già pur in democrazia. Un evidente paradosso satirico, che proviene dalla scuola profonda degli stand-up comedians statunitensi, quella dell’invettiva nobile e senza compromessi di Lenny Bruce, Bill Hicks, George Carlin fino a Louis C.K., divenuto di recente il più radicale e incontenibile.
Sarebbe davvero un peccato se Il dittatore venisse liquidato come forma espressiva di second’ordine – anche se, a dire il vero, persino la critica più tradizionalista sembra essersi accorta del talento e della raffinatezza contenutistica di Cohen. Inoltre, i comici italiani – televisivi e cinematografici – potrebbero imparare parecchio dalle strategie ironiche di questo film, senza venirci a raccontare che rutti e peti, in fondo, sono sempre la stessa materia, sia che si trovino in un cinepanettone sia che abitino il mondo di Sacha Baron Cohen. Il ragionamento è palesemente falso, e Il dittatore ne è dimostrazione lampante.