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Come eravamo, tanto tempo fa

Robert Redford e il passato politico americano.
di Roy Menarini

In foto il regista e interprete del film La regola del silenzio Robert Redford.

domenica 23 dicembre 2012 - Approfondimenti

Come si spiega l'ostinazione da parte di Robert Redford nel voler interpretare il protagonista nel suo nuovo La regola del silenzio? A voler essere pignoli, nel film il piano temporale fa acqua da tutte le parti: l'attore è palesemente troppo anziano per il ruolo (75enne, quando - fatti due conti - il personaggio dovrebbe avere se non altro una decina di anni di meno), la figlioletta sembra una nipote, e anche gli altri interpreti, a cominciare da Julie Christie, appaiono "over age", a parte Susan Sarandon che, tra reale età anagrafica e bellezza intramontabile, ribadisce una credibilità di ferro. Per affetto verso Redford, non analizziamo una per una le sequenze di dubbio gusto - tra scene di corsa, inquadrature a petto nudo e abbigliamento casual a dir poco imbarazzante.
Più interessante ragionare sulle motivazioni. Con una certa evidenza, Redford - attraverso l'adattamento del romanzo di Neil Gordon - ha voluto tracciare un parallelismo tra le battaglie politiche degli anni Sessanta/Settanta e il cinema che si faceva all'epoca. La nostalgia la fa da padrona, anche quando il protagonista sembra voler prendere le distanze dalla deriva radicale del movimento Weather Underground, realmente esistito e qui preso a esempio narrativo. In verità, i Weathermen - che si definivano così in omaggio a un verso di una canzone di Bob Dylan - ebbero un ruolo importante nel dibattito su come portare avanti le battaglie per i diritti civili nel periodo della contestazione, e la scelta della clandestinità e del terrorismo, sia pure nemmeno lontanamente paragonabile ai sanguinari estremismi europei, fu a lungo contrastata. La sconfitta dei Weathermen avvenne ben prima che una rapina finita nel sangue ne sancisse, a inizio anni Ottanta, il tramonto definitivo.
In La regola del silenzio, Redford preferisce mischiare le carte e identificare un primo momento nel quale il movimento, sia pure radicale, ha agito per nobili motivi, e un secondo, nel quale i suoi attivisti si sono lasciati contagiare dalla violenza. Agli storici il compito di dare un giudizio sulla lettura redfordiana. Quello che qui appare più chiaro è l'ulteriore conseguenza che ne trae il cineasta: rimpiangere e restaurare, oltre all'impegno politico così diffuso e passionale, anche le forme di un cinema liberal, politicamente impegnato e provocatorio, quello stesso che oggi hanno ereditato George Clooney, Ben Affleck o Tony Gilroy. Forse anche così si spiega l'ostinazione a mettere il proprio volto ormai affaticato e il proprio corpo incerto al servizio della storia, quando un altro interprete avrebbe probabilmente reso meglio. La richiesta è che lo spettatore ritrovi, tra le righe e tra le rughe, la traccia mnestica di quel cinema e di quel tempo, chiedendo alla macchina da presa di fare quel che ha sempre fatto, soprattutto in epoca analogica: immortalare lo scorrere del tempo. Questo "film nel film", a suo modo tragico quanto Amour, è assai più intrigante di quello in superficie, dove l'intrigo e la forma-thriller appaiono ancor più stanchi di Redford.

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