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I colori della passione: il cinema traduce l'arte nobile

Lech Majewski nella storia del cinema. Di Pino Farinotti.
di Pino e Rossella Farinotti

In foto una scena del film I colori della passione di Lech Majewski.

lunedì 9 aprile 2012 - Focus

Lech Majewski è un nome che legittimamente si pone nella storia del cinema. Non è un innovatore, un legislatore, ma col suo I colori della passione ha composto un'opera che traduce l'arte in cinema. Accetta la sacrale prevalenza dell'arte nobile, si pone al suo servizio, e firma un unicum, anzi, come detto sopra lo perfeziona, perché c'erano stati altri autori che si erano applicati a quella formula, grandi autori. Qualche richiamo storico è opportuno. Tarkovskij aveva già lavorato su Bruegel ("I cacciatori nella neve"), così come Kurosawa ("Sogni") e Rohmer ("La nobildonna e il duca"). Minnelli aveva animato Lautrec ("Un americano a Parigi") e Van Gogh ("Brama di vivere"). Un lavoro intenso, quasi dolente, lo si deve a Saura che ha ricostruito sul set i grandi lavori di Goya. E qui si possono rilevare analogie curiose e potenti, che si intrecciano fra presente e passato, fra opere e autori. Goya era a Madrid quando nel 1808 Napoleone invase la Spagna. La rivolta, violentissima, esplodeva ovunque e altrettanto violenta era la repressione. Goya dunque c'era dentro e non poteva non assumere quella vicenda a modo suo. Così, nel 1813 compose uno dei più drammatici quadri dell'arte spagnola e del mondo: "La fucilazione sulla montagna del Principe Pio" . La sequenza di Saura rappresenta la fucilazione come punto d'arrivo. Raramente pittura e cinema si sono combinati con tanta efficacia. Saura conosceva bene il sentimento di un paese governato da una dittatura, per anni aveva convissuto col regime franchista. Bruegel aveva vissuto a Bruxelles. Carlo V, imperatore, re di Spagna, cattolicissimo, si era opposto al luteranesimo prima con fermezza, poi con violenza, successivamente aveva abdicato a favore di suo figlio Filippo II che perfezionò la repressione violenta del padre. Bruxelles era allora una città profondamente attaccata dalla controriforma, dove i neoprotestanti venivano perseguiti, torturati e condannati a morte. In quella città, in quegli anni, viveva Pieter Bruegel. Il contesto era dunque pericoloso e violento, ma, paradossalmente, congeniale a una fase dell'opera del grande artista.

1981
Come Saura, Goya e Bruegel, anche Majewski ha toccato un regime. Nato a Katowice in Polonia, formatosi all'Accademia di Belle Arti di Varsavia, nel 1981, ventottenne, si trasferì in America. Quell''81 non è casuale, è proprio in quell'anno che in Polonia venne proclamato lo stato di guerra civile, per far fronte a quell'evoluzione storica, inevitabile, che era Solidarno. Franco, Napoleone, Filippo II, Jaruzelski: oppressori che negavano le libertà. Una situazione intollerabile per artisti, per definizione, spiriti liberi. Ma, come detto sopra, situazione "paradossalmente congeniale". Chissà se questo filo di robusta sezione ha legato gli intenti e i contenuti, "atemporalmente", di questi artisti. Fatte le debite distinzioni di categorie e di discipline, Majewski non fa parte di quella nobiltà, ma la sua dotazione è importante e completa. È musicista e poeta, ed è pittore naturalmente.

Il regista polacco ha dunque lavorato su "La salita al calvario", un olio su tela, cm. 124 x 170, datata 1564. Si trova al Kunsthistorisches Museum di Vienna. È l'opera di maggiori dimensioni di Bruegel.

Fiammingo
La composizione rappresenta più di 150 personaggi inseriti in un paesaggio squisitamente fiammingo. I costumi sono naturalmente cinquecenteschi, ma non tutti. Nel centro dell'opera prevale Gesù che cade sotto il peso della croce, lo accompagnano Giovanni, Maria e le pie donne. Il loro abbigliamento è ideale, atemporale, il gruppo si isola dal resto di quel mondo intorno. Comanda, in alto, un mulino, sullo sfondo si staglia, nebulosa, Gerusalemme. Importante, altamente simbolica è la ruota della tortura sulla quale è issato il malcapitato eretico divorato dai corvi. E sotto la ruota vigila un personaggio, forse lo stesso artista. E poi contadini, soldati, saltimbanchi e tutte le altre creature del pittore. Ciascuna con una sua identità studiata. I costumi sono naturalmente secondo filologia e cultura. Il regista accompagna Bruegel nell'arte e nel privato. L'artista prepara i disegni preliminari, spiega la composizione al signorotto locale, all'altezza di capire estetica, filosofia, struttura. Moglie e bambini di Bruegel, così come i contadini e i soldati spagnoli, sono un esercizio di autentica accademia di costumi. I colori del dipinto sono trasferiti alla perfezione nel fotogramma. Insomma una simbiosi assoluta fra le due discipline. Rutger Hauer è Bruegel. L'attore è ... di quelle parti, è olandese, avrebbe l'età (68) per essere il padre di Bruegel, trentacinquenne all'epoca del dipinto, ma è coinvolto ed efficace da giustificare quella licenza. Quando il pittore termina la composizione, lo schermo diventa tela, l'obiettivo parte dal particolare per allargarsi su tutto l'insieme. Quella "Salita al calvario", scelta da Majewski è dunque uno degli incanti del mondo. Se, come detto, il regista non è proprio un inventore, lo fu invece Pieter Bruegel il vecchio, che a metà Cinquecento, dopo aver toccato il nostro Rinascimento, evolveva i modelli verso una libertà stilistica che superava il puro figurativo e rivelava un embrione di surrealismo. Majewski aveva a disposizione il materiale migliore, una magnifica piattaforma di sortilegio e di privilegio. Non ha inventato, ma la sua gestione è stata all'altezza di quel materiale. Arte figurativa & cinema: l'unicum gli appartiene.

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