L’idea della fuga portata alle estreme conseguenze. A realizzarla, un giovane brillante e intelligente, laureato e benestante, ma non per questo soddisfatto della propria esistenza. Anzi, talmente inquieto da prendere la drastica decisione di mollare tutto e partire alla volta dell’Alaska. E quando dico tutto intendo tutto: documenti stracciati, soldi bruciati, ogni legame familiare troncato.
L’ultimo film di Sean Penn è il più classico dei road-movie. Un lungo viaggio attraverso l’America da est a ovest, durante il quale si entra in contatto con realtà distanti ed opposte tra loro: dal Midwest rurale e genuino ai grandi spazi incontaminati del Sud-Ovest; dalla caotica e corrotta Los Angeles alle piccole contee di provincia. Luoghi dunque, ma anche persone: figli dei fiori reduci del sessantotto, diseredati, una giovane coppia di danesi anch’essa in fuga non si sa bene da cosa, agricoltori delle grandi pianure, anziani reduci di guerra. Insomma, un melting pot di contesti e personaggi che, come si addice a questo sottogenere tipicamente Made in USA, vorrebbe essere metafora della società americana, nonché delle sue mille sfaccettature e contraddizioni.
Il film, però, è anche suoni e parole. Tante. Forse troppe. A mio parere, ciò che si può obiettare ad una pellicola che – diciamolo chiaramente per non essere fraintesi – resta senza dubbio molto bella, sta nella martellante presenza di una voce fuori campo che depotenzia la poeticità delle immagini, ed in una colonna sonora talmente onnipresente da risultare in alcuni momenti persino irritante. Nessuno osa mettere in discussione la qualità delle musiche di Eddie Vedder, ma il tutto finisce con il risultare eccessivamente didascalico: un’epopea né epica né elegiaca, ma semplicemente avventurosa, come tante altre volte si è vista sullo schermo. Un’avventura bellissima ed emozionante, ma spogliata in maniera quasi assoluta di ogni forma di spiritualismo: ecco dunque che se il silenzio fosse stato scelto per “commentare” le straordinarie sequenze che mostrano l’America più selvaggia e remota, il film avrebbe assunto quelle note di introspezione e lirismo in grado di rendere l’intera opera più solida e coerente. Non è un caso che i momenti migliori del film siano quelli ambientati in Alaska, meta ultima, e tragica, di Christopher McCandless “Supertrump”, che rompendo la linearità temporale della narrazione filmica, consentono attimi di fuga anche allo spettatore.
Si resta pertanto affascinati dal film, ma ci si domanda cosa ne sarebbe uscito fuori se a decidere di tradurre in immagini l’omonimo romanzo di Jon Krakauer fosse stato Terrence Malick: con molta probabilità, staremmo qui a scrivere e parlare di uno dei più grandi capolavori della storia del cinema.
Sean Penn è senza dubbio regista capace, e sa quali tasti premere per emozionare il pubblico. Deve solo capire che, a volte, basta premerne uno alla volta.
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