Pulp Fiction

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Irene Bignardi

La Repubblica

Da quando sono tornata a rivedere Pulp Fiction di Quentin Tarantino, dopo la Palma d’oro che il film ha conquistato a Cannes nel 1994, vivo in un terribile dubbio: sono una giovanottista o una vecchiottista? Per chi non fosse familiare con i termini del demenziale dibattito, ricordo che “giovanottista” è un termine coniato da Tullio Kezich nel corso di una polemica sul modo di far critica, e “vecchiottista” la simmetrica etichetta appiccicata al mio amico e collega, a me e a una serie di altri signori, subito dopo Cannes, da un servizio di “Panorama” che schedava il mondo del gusto cinematografico in base - sostanzialmente - a un’unica discriminante: vi piace Tarantino?
Confesso che dopo aver messo a suo tempo il debutto di Tarantino, Le iene, tra i cinque film più interessanti del 1993, e dopo aver espresso nella corrispondenza da Cannes giudizi compromettenti (parlavo di “grande divertimento”, della “conferma che è nato un autore”, di “talento visivo spettacoloso”, di un”abilissima tenuta degli attori”) il fatto di trovarmi inopinatamente vecchiottista (secondo il metro aureo di Pulp Fiction) mi stava, compagnia a parte, un po’ stretto. Ma è vero che, se la prima impressione è quella che conta, non fa male anche rivedere i film. Per scoprire per esempio, come mi è accaduto, che sottoscriverei ancora sia il giudizio positivo sul talento e la brillantezza, sia le riserve sulla violenza (sono matti, in Francia, a vietare il film solo ai minori di dodici anni?).
Ma anche che l’abilissimo gioco di Pulp Fiction, esaurito l’effetto pirotecnico della prima volta, a una seconda visione rivela tutte le saldature dei suoi trucchi, un manierismo nel meccanismo della destrutturazione che finisce per essere ripetitivo, una leggerezza, nonostante i bagni di sangue, che sfiora l’inconsistenza.
Un grande divertimento, si diceva, ma per lo spettatore capace di far fronte a scene da grand-guignol (meno, più che in Le iene? Se non vi fa impressione un’iniezione di adrenalina nel cuore...). Sarà per questo che a suo tempo “Variety” definì il film “per spettatori giovani di sesso maschile”. Fatto sta che su una falsa struttura circolare (il film si chiude dove si apre, su una rapina in un diner, ma basta farsi uno schemino per vedere che Tarantino bara e fa delle deviazioni narrative ingiustificate e impossibili) Pulp Fiction smonta i ruoli e i meccanismi tradizionali del noir per ricomporli in un disegno ironico, pop, grottesco. Immaginate i “topoi” tradizionali di Hammett, Chandler, Chase - o meglio ancora dei relativi epigoni - spogliati della loro ambientazione e delle loro convenzioni e ricostruiti senza volontà romanzesca, salvo quella di ingarbugliare quanto più si può i fili dei destini e di giocare con la tradizione, di rileggerla in chiave pop. Non molto diversamente da quello che faceva Lichtenstein trent’anni fa con il fumetto, e con lo stesso tipo di parentela.
Perché Tarantino, ad apertura di film, cita la definizione che l’American Heritage Dictionaty dà dei pulp, la letteratura popolare d’azione stampata, come dice la parola, su cartaccìa. Mentre lui, come Lichtenstein, nobilita esteticamente i suoi materiali poveri e li tira a lucido, con un occhio allenatissimo all’eleganza di moda, con un gusto impeccabile dell’impaginazione.
Si comincia dunque in un diner dove una coppia di piccoli delinquenti (Tim Roth e Amanda Plummer) dibattono tra un vezzeggiativo e l’altro una nuova politica per le rapine. Si continua con due gangster in vestito scuro (un irresistibile John Travolta unto e grassoccio e il bravo Samuel L. Jackson) che discutendo di hamburger, di massaggi ai piedi e di Sacre Scritture fanno fuori dei colleghi inadempienti. Si prosegue con Travolta incaricato dal suo boss di fare compagnia alla moglie Uma Thurman - ma lei rischia di morire per un’overdose da cui la salva solo un’iniezione nel cuore (una scena terrificante, ma chi ha il pelo sullo stomaco può anche ridere). Si arriva a Bruce Willis, che non è stato ai patti, ha battuto sul ring il suo rivale e deve lasciare di corsa la città - ma ha dimenticato l’orologio lasciatogli in eredità dal babbo caduto in Vietnam e finisce tra le grinfie di due sadici. E tutti i personaggi incrociano i loro destini secondo un percorso improbabile ma ameno, occasione per numeri di elegante bravura (il twist di Travolta e Thurman nel ristorante-revival) e per satireggiare qualche mito americano (valga per tutti il diScorso di Christopher Walken quando racconta a Wiilis bambino dove ha tenuto nascosto l’orologio che il padre gli destinava, o Harvey Keitel nell’esercizio della sua celebrata efficienza). E allora? Forse sono una vecchio-giovanottista: in ammirazione davanti alle invenzioni e allo stile, perplessa di fronte agli eccessi e al vuoto di un brillantissimo metacinema.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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