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Rassegna stampa di Humphrey Bogart

Humphrey Bogart (Humphrey De Forest). Data di nascita 25 dicembre 1899 a New York City, New York (USA) ed è morto il 14 gennaio 1957 all'età di 57 anni a Los Angeles, California (USA).

IRENE BIGNARDI
La Repubblica

Quando è cominciato il culto di Bogart? Forse quando è uscito quell'insuperabile capolavoro che è Casablanca? O quando è diventato Marlowe in quel confuso capolavoro che è Il grande sonno? O quando si è coperto di una barbaccia incolta in Il tesoro della Sierra Madre, rinunciando ad esporre in toto il suo celebre volto? O quando è diventato il rigido ma innamorabile Linus che cede allo charme adolescenziale di Audrey Hepburn in Sabrina? No. Ufficialmente il culto di Bogart – non l'ammirazione per il grande attore dalla faccia di pietra e dalla risata agghiacciante, non quello per l'uomo tosto e simpatico, non quello per la metà di una coppia amatissima del cinema, ma il culto per quella che si chiama ora l'«icona» Bogart – il culto di Bogart è iniziato un giorno sullo schermo in bianco e nero di un regista eversivo come Jean-Luc Godard, che ha messo il suo giovanissimo Belmondo di fronte a uno specchio, all'inizio di A bout de souffle, e gli ha fatto dire: «Bogey».
Bogey era morto da due anni, nel 1957, e il suo personaggio di uomo duro, onesto, incapace di compromessi, sincero, leale senza sentimentalismi, divenne per una generazione in cerca di eroi un mito. Sono fioccate le biografie. Sono fioccate le celebrazioni. La ripresa di Casablanca e le analisi di chi, come Umberto Eco, ha esaminato quel film decidendo che non era «un film» ma «il film», ha inciso nella memoria collettiva una leggenda. E ora, a ripercorrere la storia di una star amatissima, arriva Jonathan Coe, scrittore di successo (il libro più celebre, La famiglia Winshaw, Feltrinelli, pp. 480, euro 8,5, ha avuto un notevole esito). Coe è un cinefilo sfegatato, che dei suoi Otto libri due ne ha dedicati ad altrettante leggende dello schermo, a James Stewart e, appunto, a Bogart, col titolo Caro Bogart una biografia (traduzione di Anna Mioni, Feltrinelli, pp. 136, euro 8,5, una prima edizione del libro era uscita 10 anni fa da Gremese). Premette l'autore: «Se le controversie sulle sue qualità umane tenderanno ad affievolirsi nel corso della storia, vero è che nessuno esce da uno dei grandi film di Bogart senza aver visto qualcosa che lo riempia e lo arricchisca. Se la sua carriera e i suoi film offrono buone ragioni per fame un culto è perché ci insegnano una strategia salutare, per stare dentro la vita quando va alla grande e quando è uno schifo. Per prenderla com'è».

PIETRO BIANCHI

Lo scandalo di Humphrey Bogart è finito: lo scandalo di un uomo maturo, quasi vecchio (era nato nel 1899), non bello, non elegante e neppure «racé», che si ostinava a tenere i primi posti nell'elenco del «box-office». Un attore che oltrettutto aveva avuto due carriere: come eroe di imprese criminali sfortunate nelle pellicole di anteguerra, da La foresta pietrificata a Strada sbarrata, e infine come protagonista inarrivabile del film nero: da Il mistero del falco di Huston a Il grande sonno di Hawks.
La sua foto più patetica è quando cammina, in colonna, con un gruppo che protesta contro alcune cose storte della politica USA; quella più cordiale, di pochi mesi fa, quando riceve a casa sua alcuni giovani interpreti ansiosi di conoscere il segreto del successo; la più tragica quella che lo vede al fianco della moglie Lauren Bacall, immagine dell'eleganza muliebre e del mistero dei rapporti amorosi. «Potrebbe essere suo padre,» dicevano i soliti filistei; ma Lauren, la bocca tumida carica di promesse, gli occhi di un grigio inquietante, guarda il suo «Bogie» con un'espressione che non può ingannare l'osservatore spericolato.

FRANçOIS TRUFFAUT

L'ultima immagine di Bogart ce lo mostra davanti alla macchina da scrivere alla fine di The harder they fall (Il colosso di argilla, 1956) mentre si accinge a stendere la sua confessione. Piuttosto che quest'ultimo ruolo nel quale fu mollemente diretto da Mark Robson, conserveremo il ricordo di quello del regista in The barefoot contessa (La contessa scalza, 1954); quando seppelliscono Ava Gardner lui è lì, sotto la pioggia, in impermeabile, e dice prima di lasciare il cimitero: “Ci sarà il sole domani, potremo lavorare”. In questo film Bogart interpretava, né più né meno, la parte di Joseph Mankiewicz.
Humphrey Bogart si è sempre divertito a farci credere di essere nato il giorno di Natale di un anno in cui era Natale tutti i giorni: 1900. Humphrey era il cognome di sua madre attrice, lui ne fece il suo nome. Pessimo scolaro, pessimo marinaio, pessimo marito, aspettava che il cinema lo trasformasse nel migliore in tutto.
La prima volta che si parlò di lui in un giornale, fu a proposito di una commedia nella quale lui aveva una particina: “Per parlare gentilmente diremo di questo attore che non era all'altezza del ruolo”. Humphrey restò di pietra e fu precisamente in questo periodo che Leslie Howard gli fece interpretare al suo fianco The petrified forest (La foresta pietrificata, 1936) in teatro prima e poi al cinema. Seguirono una trentina di Thrillers nei quali Bogart ebbe parti di secondo piano, piuttosto ignobili, facendo da spalla al protagonista: Victor McLaglen, Spencer Tracy, Edward G. Robinson, James Cagney, George Raft o ancora Paul Muni. La tradizione hollywoodiana esige che un attore diventato celebre facendo parti di gangster salga di posto nella gerarchia cambiando di campo, l'assassino diventa poliziotto e vede la sua paga decuplicata; siamo al cinema e il destino di Vidocq, diritto e rovescio, illustra bene questa amara promozione.

PIETRO BIANCHI

La stagione cominciò male quanto ad attori: con una inflazione del legnoso George Brent e dell'antipatica virago nordica Ingrid Bergman. Poi per fortuna c'è stata una serie di film con Humphrey Bogart, film in genere mediocre (meno Il mistero del falco, ispirato da un bellissimo "giallo" di Dashiell Hammett); ma sempre riscattati dalla presenza di questo straordinario attore. Abbiamo scoperto Bogart tanti anni fa, al tempo della Foresta pietrificata; lo vedemmo, dopo in altre pellicole, sempre sacrificato. Poi, al varco della quarantina, si sono accorti di lui, come accade anche a Hollywood; scoprendolo come un ideale interprete di testi letterari, di Hemingway soprattutto. Congiunto alla capziosa Laureen Bacall (dicono che quando non è col marito Laureen non è capace di recitare), Bogart rappresenta il nuovo tipo di "eroe" americano maturato nella guerra. Ha una consapevolezza che né Gable né Cooper possedevano. E' l'homo novus di una civiltà che ha superato la coscienza, il peccato, e la letteratura. Nel suo ultimo film, Nebbie insanguinate, Bogart è coerentemente fedele alla sua raffigurazione romantica: come nessuno oggi a Hollywood egli 3a impugnare una pistola e dire parole d'amore, nude e essenziali, alle donne che gli piacciono. Da Candido, 28 giugno1947

ANDRé BAZIN

Chi non porta il lutto di Humphrey Bogart morto a cinquantasei anni di un cancro all'esofago e di un mezzo milione di whisky? La scomparsa di James Dean ha colpito soprattutto le minori di vent'anni di sesso femminile, quella di Boggy i loro genitori o almeno i loro fratelli maggiori, ed è soprattutto un lutto per gli uomini. Più seduttore che seducente, Bogart piaceva alle donne nei film; per lo spettatore, mi sembra che sia stato più l'eroe al quale ci si identifica che .quello che si ama. Le donne possono rimpiangerlo, ma conosco uomini che lo piangerebbero se non fosse per l'incongruità del sentimento sulla tomba di questo duro. Né fiori né corone.
Arrivo un po' tardi per fare la mia orazione funebre. Si è già scritto molto su Bogart, la sua persona e il suo mito. Ma nessuno forse meglio di Robert Lachenay, già più di un anno fa (Cahiers du Cinéma, n. 52, novembre 1955), di cui non posso fare a meno di citare queste parole premonitrici: «Ogni inizio di frase rivela una dentatura vagabonda. La contrazione della mascella evoca irresistibilmente il rictus di un cadavere gaio, l'espressione ultima di un uomo triste che se ne andasse sorridendo. È proprio il sorriso della morte.»
Appare chiaro adesso in effetti che nessuno più di Bogart ha, per così dire, incarnato l'immanenza della morte, la sua imminenza anche. Non tanto del resto di quella che si dà o che si riceve quanto del cadavere differito che è in ciascuno di noi. E se la sua morte ci tocca così da vicino, così intimamente, è perché la ragion d'essere della sua vita era in qualche maniera quella di sopravvivere. Così in lui il trionfo della morte è doppio perché vittorioso meno della vita che della resistenza alla morte. Mi si capirà forse meglio se oppongo il suo personaggio a Gabin (al quale lo si potrebbe peraltro per tanti altri aspetti paragonare). L'uno e l'altro sono eroi della tragedia cinematografica moderna, ma con Gabin (parlo naturalmente di quello di Le jour se lève o di Pépé le Moko) la morte e in fin dei conti, al termine dell'avventura, implacabile all'appuntamento. Il destino di Gabin è appunto di essere ingannato dalla vita. Ma Bogart è l'uomo di dopo il destino. Quando entra nel film è già l'alba livida dell'indomani, irrisoriamente vittorioso del macabro combattimento con l'angelo, il volto segnato da ciò che ha visto e il passo pesante per tutto ciò che sa. Avendo dieci volte trionfato della morte, sopravviverà senza dubbio per noi una volta di più.

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