Joan Crawford (Lucille Fay LeSueur). Data di nascita 23 marzo 1905 a San Antonio, Texas (USA) ed è morto il 10 maggio 1977 all'età di 72 anni a New York City, New York (USA).
Lucille Fay LeSueur, questo il suo vero nome, era nata a San Antonio in Texas ma la sua data di nascita è sempre stata controversa, sebbene quella del 1905 sembri essere la più attendibile. Sua madre, Anne Bell Johnson, venne abbandonata dal marito, Thomas LeSueur, prima che lei nascesse; si risposò poi con un certo Henry J.Cassin, gestore di un piccolo teatro di provincia in Oklahoma. È qui che Lucille (minore di tre fratelli e chiamata familiarmente Billie) inizia ad amare la danza: vorrebbe infatti fare la ballerina, anche se un incidente in giovane età (si taglia il piede con il vetro di una bottiglia recidendosi il muscolo e i tendini ) la renderà claudicante per tutta la vita. Costretta dalla vita a cavarsela da sola, la Crawford frequentò dal 1922 come studentessa lavoratrice il college femminile di Columbia (Missouri), debuttando come ballerina di fila in una rivista musicale a Broadway, dove viene notata da un talent scount che la presenta alla Metro Goldwyn Mayer. Qui viene sottoposta ad alcuni provini e, nel gennaio 1925, messa sotto contratto quinquennale. Si trasferisce quindi sulla costa occidentale, a Culver City (California), dove inizia la carriera di attrice. Il debutto cinematografico avviene con piccole parti da controfigura e in ruoli minori, ad esempio quello in "Di corsa dietro al cuore" al fianco di Harry Langdon; prende poi il nome di Joan Crawford, nome d'arte che venne adottato sulla base di un concorso popolare, con tanto di premio finale, indetto dalla stessa MGM. Ma è conOur Dancing Daughters(1928) che Joan Crawford gioca la sua carta vincente: in questo film da la più riuscita versione della giovane ballerina dell'età del jazz, ostinata quanto bastava per risultare credibile nell'affrontare le avversità della vita. Ormai è una stella: ha ventiquattro anni ed è ormai avviata a diventare il perfetto prodotto dello studio system hollywoodiano. D'altronde l'avvento del sonoro non è un problema per la Crawford che è dotata di una voce molto espressiva: il suo primo film 'parlato' è "L'indomabile" ("Untamed") di Jack Conway del 1929. Di carattere ambizioso, dotata di una spiccata personalità e di un'estrema chiarezza di idee, la giovane Joan Crawford si accorge di quanto ancora debba affinarsi, e di quanta strada debba percorrere se vuole raggiungere lo scopo che si è prefisso. L'aver avuto delle umili origini è sicuramente uno stimolo: comincia così a frequentare Douglas Fairbanks jr. e, nonostante il parere contrario dei genitori, riesce a farsi sposare. Ottiene così un lasciapassare per gli ambienti più esclusivi dell'alta società, comincia a farsi vedere a Pickfair, dominio di Fairbanks sr. e della moglie Mary Pickford, riuscendo ben presto ad ambientarsi e a imparare le regole del bel mondo. Con ambizione e costanza riesce a costruirsi un'immagine vincente: un corpo asciutto con le spalle robuste in evidenza, le labbra carnose messe in risalto da rossetti infuocati, i grandi occhi evidenziati dalle sopracciglia sottili. Il costumista della Metro, Adrian, disegna per lei una linea di abiti che rimarrà di moda per vent'anni. E' così che la Crawford abbandona i ruoli da ragazza ingenua e vivace e si cimenta con personaggi sempre più complessi e drammatici mietendo un successo dietro l'altro soprattutto nei film interpretati al fianco di Clark Gable. Nel 1932 arriva il vero grande successo con la sua sensuale e spregiudicata interpretazione della giovane dattilografa in "Grand Hotel" di Edmund Goulding, vincitore di un premio Oscar, con cui impone un nuovo modello di donna, indipendente e sfacciata. Nel 1945 arriva l'Oscar come miglior attrice con il film "Mildred Pierce" ("Il romanzo di Mildred"), in cui impersona con sofferta sensibilità una donna divorziata alla prese con le due figlie, ma la Crawford non potrà presenziare alla cerimonia perché a casa ammalata di polmonite; il premio verrà ritirato per lei dal regista Michael Curtiz che glielo consegnerà al suo capezzale. Non appena la televisione comincia ad invadere il terreno dello spettacolo, gli spettatori dei suoi film vanno però assottigliandosi, ma nel 1952 l'attrice dà nuova prova di vitalità interpretando un thriller, Sudden Fear (So che mi ucciderai), e quando torna alla MGM si esibisce nel musical Torch Song (La maschera e il cuore, 1953). Nel 1954 fa nuovamente centro come Vienna nel western di Nick Ray Johnny Guitar, un'opera insolita che segna una svolta nel genere. Dopo qualche film più trascurabile, la Crawford rivive un nuovo momento di successo internazionale interpretando nel 1962Che fine ha fatto Baby Jane?", accanto alla sua eterna rivale, Bette Davis. Nel 1964 si riammala gravemente di polmonite e non riesce a completare la lavorazione di Piano, piano... dolce Carlotta dove viene sostituita da Olivia de Havilland. Dopo Trog (1970) si ritira dalle scene per seguire la campagna pubblicitaria della Pepsi Cola, di cui era stato un importante dirigente Alfred Steele, il suo quarto e ultimo marito. La Crawford si era già sposata con gli attori Franchot Tone e Philip Terry e aveva adottato nel tempo quattro figli: Christina (che pubblicherà dopo la sua morte un libro di memorie molto duro verso di lei, Mommy Dearest, Mammina cara, da cui nel 1981 fu tratto il film omonimo di Frank Perry con Faye Dunaway nel ruolo della Crawford e in cui descrive le terribili crudeltà che si nascondevano dietro la facciata di un rapporto con i figli sempre sereno e felice, dipingendo un impietoso ritratto della madre), Philip (al quale cambierà il nome in Christopher dopo il divorzio da Philip Terry) e Cathy e Cindy (che chiamerà sempre 'le mie gemelline'). Joan Crawford si ammalò di cancro allo stomaco e morì per arresto cardiaco in completa solitudine nella sua casa di New York nel 1977, a 69 anni. Nel testamento diseredò la figlia Christine e il figlio Christopher ('per i motivi che loro sanno', scrisse) lasciando ogni sua sostanza alle altre due figlie, Cindy e Cathy. Il suo corpo riposa nel cimitero di Hartsdale, a New York. La Crawford ha scritto due autobiografie: "A portrait of Joan" nel 1962 e My way of life nel 1971.
More than 30 years after her death, Joan Crawford continues to exert a fascination that has little or nothing to do with her gifts as an actress, a fact that is one working definition of the term “movie star.”
Crawford was an almost entirely artificial creation, from top (those painted-on eyebrows and wide-open eyes) to toe (a tiny woman who began as a dancer, she learned to carry herself effectively en pointe to create an illusion of height).
And yet the illusion was never quite convincing: behind the assertive, aristocratic bearing of “Joan Crawford” audiences had no difficulty discerning Lucille LeSueur, the anxious, highly self-conscious working-class girl born to a single mother (her father left before she was born) in San Antonio. She is always trying too hard: enunciating her words too carefully in hopes of hiding her native twang; moving with a too-studied precision meant to show off her superlative legs; or fixing the camera with that unblinking stare, intended to suggest an alluring hauteur but just as expressive of borderline panic.
Did her public find her duality reassuring, an implicit promise that they too could ascend to the heights of glamour and fame with enough determination and just the right eyeliner? Crawford’s most successful films make her artificiality part of the story line, exposing the device even as they celebrate the illusion.
The second volume of Warner Home Video’s “Joan Crawford Collection” draws on her studio years as a contract player for MGM (1925 to 1943) and Warner Brothers (1944-1952), only the first two acts of her extraordinarily long career. The oldest film in the new collection is “Sadie McKee” (1934), directed by the self-effacing (frequently to the point of invisibility) Clarence Brown.
Here, at the pinnacle of her first period of stardom (and in her last film before the enforcement of the Production Code would rein in her complicated sexuality), she is already playing a thinly disguised version of herself, which readers of the fan magazines would have recognized immediately. Her character, Sadie, is the daughter of a cook (Crawford’s mother was a waitress) who, thanks to the transformative powers of show business (like Crawford, she becomes a nightclub dancer), is allowed to stride across the barriers of class and marry the millionaire son of her mother’s employer (Franchot Tone, soon to become Crawford’s second husband).
Yet Crawford’s bearing throughout “Sadie McKee” is that of the born aristocrat (a visitor to the household identifies her as a “thoroughbred” before he sees her in her maid’s outfit), and the film makes no attempt to dramatize her transformation from servant to mistress of her own palatial home. That story, as the film’s makers and, no doubt, Crawford herself must have realized, could be read in her face.
The three middle films in this set find Crawford working with major directors, whose personal styles trump her own. In Frank Borzage’s allegorical “Strange Cargo” (1940), she is a cabaret “hostess” with a heart of gold who joins a group of prisoners (Clark Gable, Peter Lorre, Paul Lukas) in escaping from a French penal colony with the help of a Christ-like stranger (Ian Hunter).
In “A Woman’s Face” (1941), directed by George Cukor, she is a petty criminal transformed into a great beauty by a plastic surgeon (Melvyn Douglas), with unfortunate results: her new face allows her to be drafted into a plot to murder a 4-year-old boy. The film is more intriguingly odd than artistically successful, though it did reunite Crawford with Cukor, her favorite director.
Charlotte Chandler, in her sympathetic new biography of Crawford, “Not the Girl Next Door” (Simon & Schuster), suggestively quotes Crawford as saying, “If I could have selected a man to be my father, he would have been George Cukor.” He didn’t just help her to do better in the films, she says, “but he helped me to be me.”
And in “Flamingo Road” (1949), a Warner Brothers attempt to recapture the Oscar-winning lightning of “Mildred Pierce,” she is a carnival dancer who confronts a sadistic small-town political boss (Sydney Greenstreet), though her performance recedes into the visual splendor of Michael Curtiz’s deep-focus compositions.
Crawford reasserts her personal authorship with the bizarre “Torch Song” (1953), a harsh self-portrait that seems to anticipate the monster portrayed in “Mommie Dearest,” the devastating 1978 memoir by Crawford’s adopted daughter Christina. Crawford is in full gorgon mode as Jenny Stewart, a Broadway musical star whose compulsive dedication to her craft has transformed her into a castrating terror at home and in the rehearsal hall, at least until she is improbably redeemed by a saintly blind pianist (Michael Wilding, with an idiot grin meant to suggest inner goodness).
There are lines in the screenplay that sound like quotations from Ms. Chandler’s book, though pronounced with extra theatrical intensity: “The first time I ever sang, I fell in love with the audience. I’ve been in love with the audience ever since. I’m going to give them the best that’s in me, no matter who, what or when tries to stop me.”
Apparently, the best that’s in her is a grotesque production number, “Two-Faced Woman,” which Crawford performs in blackface (to a recording originally made by India Adams for a number cut from “The Band Wagon”).
Though weakly directed by Charles Walters (you yearn to see what Douglas Sirk would have done with the vibrantly contrasting hues of Crawford’s dressing gown and bedroom set), “Torch Song” remains the last great expression of the Crawford myth: behind the brassy facade, we find once again the frightened little girl, who must turn to her working-class mother (Marjorie Rambeau) for comfort and guidance.
As she aged, Crawford seemed to become more comfortable in her own skin. The best of her late performances — in Nicholas Ray’s 1954 “Johnny Guitar” and Robert Aldrich’s 1962 “What Ever Happened to Baby Jane?” (in which she watches a clip from “Sadie McKee”) — contain an element of self-parody that suggests that she was finally able to relieve herself of the burden of her obsessive drive for perfection. At least, that’s the only imaginable happy ending for this great and terrible star. (Warner Home Video, $49.98, not rated.)
Da The New York Times, 19 febbraio 2008
Il padre se ne andò quando lei era piccola e la madre si risposò con un impresario di vaudeville; da qui il primo cognome d’arte di Lucille e il suo interesse per la danza. Anche il signor Cassin durò poco e per la famiglia cominciarono tempi magri: Lucille lavorava e studiava e, soprattutto, lavorava e ballava. Lavorò in una lavanderia, fece la cameriera e la commessa, sperimentò l’ironia delle compagne di scuola (ricche) davanti ai suoi abiti da sera raccogliticci e alle sue maniere ineleganti, e travasò tutto questo nell’altezzosa determinazione delle sue “career women” degli anni ’30 e ‘40, nelle cameriere, le ragazze da circo, le ballerine che, attraverso gli uomini e il lavoro, raggiungono il riconoscimento sociale, la ricchezza, il potere, lo status. Presto lasciò la scuola, ballò, vinse una gara di charleston, fu notata da un cacciatore di talenti della Mgm e nel 1925, dopo un provino, fu messa sotto contratto. Lavorò sodo e non si sottrasse, pare, alla gavetta delle starlet, filmetti e fotografie a luci rosse compresi. Nel primo film, Pretty Ladies di Monta Bell, faceva la ballerina di fila, al terzo, Old Clothes con Jackie Coogan, le trovarono il nuovo nome attraverso un concorso su una rivista popolare; al quarto, Sally, Irene and Mary, era una delle tre protagoniste, aveva perso peso e avéva imparato a muoversi con grazia; al settimo, The Taxi Dancer, il suo nome veniva prima di tutti gli altri; al decimo, The Unknown di Tod Browning, capì che cosa significava recitare osservando il protagonista, il grande Lon Chaney; al sedicesimo, Our Dancing Daughter, divenne una star. Era il 1928, erano passati solo tre anni, e Joan Crawford incarnava la vitalità scatenata e nervosa della “flapper”, la figlia frivola dell’età del jazz che consuma le notti e la vita in fretta. Ballando sull’orlo del disastro (l’anno dopo, il crollo di Wall Street avrebbe inghiottito tutto), Joan Crawford conquistò i fan: le lettere arrivarono a tonnellate, il suo stipendio passò da 5o a 500 dollari la settimana, sposò uno dei “ragazzi d’oro” di Hollywood, Douglas Fairbanks jr., figlio di Senior e di Mary Pickford (il matrimonio durò 4 anni, come i due successivi; il quarto marito, invece, Alfred Steele, amministratore delegato della Pepsi Cola, prima di lasciarla vedova la portò in vetta al consiglio d’amministrazione della compagnia), fu affidata ad Adrian, geniale designer della Mgm, che le insegnò a calibrare, sullo schermo e nella vita, abiti e scene madri ed esasperò le sue spalle larghe con unhottiture e volant, inventando uno “stile Crawford” che andò a ruba nei grandi magazzini. Da allora, Joan Crawford rimase una delle icone più durature di Hollywood: da ragazza alla Fitzgerald a cinica mangiatrice di uomini, da indomita tragica a drammatica caricatura del passato, tra gli alti e bassi di una carriera che l’ha vista almeno due volte “veleno al botteghino”, non smise mai di essere una Star. «Non esco mai se non nei panni di Joan Crawford, la diva. Se volete vedere la ragazza della porta accanto, andate a bussare alla porta accanto»: nessun cedimento, mai un capello fuori posto, mai le labbra diverse di un millimetro dal look che le inventarono alla Mgm negli anni ‘30, mai meno che “mommie dearest” nelle uscite ufficiali con i quattro figli adottivi (anche se la figlia Christina la vedeva dIversamente, come scrisse in Mammina cara, memorie al vetriolo, chissà se veritiere o meno). Non c’è da meravigliarsi che il suo personaggio più riuscito e durevole, dalla commessa di Donne a Mildred Pierce alla Vienna di Johnny Guitar, sia stato quello della “self-made-woman”, incarognita dalla vita e dagli uomini. E che quando arrivò finalmente, quasi sessantenne, allo scontro diretto, “schermico” con l’eterna rivale alla Warner e nelle passioni strazianti, Bette Davis, l’autentica “heavy” (la cattiva senza sfumature e senza progressione) fosse lei, dietro (e grazie) alla sua apparenza dolciastra, «Il momento migliore che ho passato con lei è stato quello in cui l’ho spinta giù dalle scale in Che fine ha fatto Baby Jane?», ha detto la Davis. In quel film, Robert Aldrich tirava fuori l’anima dei classici hollywoodiani: quella tragicamente ferita della “cattiva” Bene Davis (la più grande attrice drammatica della storia del cinema) e quella tutta d’un pezzo, senza rimpianti, della carogna Joan Crawford.
Da Film Tv, n. 12, 2004