L’esordio nel lungometraggio di finzione di Delphine Deloget mette in scena con grande sensibilità lo scontro tra l’individuo e le istituzioni. Memore delle sue esperienze nel documentario, la regista rinuncia a ogni semplificazione manichea per scavare nella complessità dell’animo di tutte le persone coinvolte, sottolineandone virtù e debolezze, torti e ragioni.

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Protagonista di Niente da Perdere è Sylvie Paugam, che vive a Brest insieme ai due figli: Jean-Jacques, detto JJ, un adolescente con un grande talento nella musica, e il più giovane Sofiane, un ragazzo dolce ma emotivamente fragile. La stabilità della famiglia viene sconvolta quando, mentre Sylvie è al lavoro, Sofiane subisce un incidente domestico. L'episodio attira l'attenzione dei servizi sociali, che decidono d’intervenire ritenendo l'ambiente in cui vive inadatto per il bambino.

E così, nonostante le proteste di Sylvie, Sofiane viene allontanato dalla madre e affidato a una famiglia temporanea. Determinata a riavere la custodia del figlio, la donna intraprende quindi una battaglia legale contro le istituzioni, cercando di dimostrare la sua idoneità come madre e la sicurezza del focolare. Dovrà però affrontare difficoltà burocratiche e pregiudizi sociali.

La narrazione si snoda lungo un doppio binario, alternando momenti di struggente intimità familiare e scene di confronto con un sistema che si mostra al tempo stesso protettivo e oppressivo. In questo modo, Deloget riesce nell’impresa di costruire un racconto che non punta il dito contro i singoli personaggi, ma sa esplorare il delicato equilibrio tra il diritto dell’individuo alla libertà e il dovere delle istituzioni d’intervenire per il bene comune.

Il linguaggio è sobrio, lontano dalle facili spettacolarizzazioni: la macchina da presa spesso indugia sui dettagli più minuti del quotidiano, che diventano il veicolo privilegiato per trasmettere il dolore, la determinazione e lo spirito di resilienza di Sylvie.

Non mancano, inoltre, riferimenti al contesto socio-economico che fa da sfondo alla vicenda: la precarietà lavorativa di Sylvie e le sue difficoltà finanziarie diventano un commento implicito alle disuguaglianze che spesso mettono in crisi le famiglie più vulnerabili.

La città di Brest, con la sua atmosfera grigia e aspra, diventa quasi un personaggio a sé stante, in grado di rispecchiare la lotta interiore dei protagonisti. In questo modo, il film solleva interrogativi di grande rilevanza: entro quali limiti può ritenersi legittimo l'ingerenza dello Stato nella sfera intima di una famiglia? Qual è il confine tra protezione e controllo?

Alla riuscita dell’operazione contribuisce in maniera determinate la strepitosa interpretazione di Virginie Efira (già apprezzata in Elle e Benedetta di Paul Verhoeven o nel più recente Il coraggio di Blanche), capace di rendere palpabile la disperazione e l’amore incondizionato che guidano ogni sua azione. È anche per merito suo se il film riesce a toccare corde universali, esplorando i cedimenti e gli slanci che caratterizzano ogni relazione umana.

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