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Lubitsch, il cineasta indispensabile. L'eterna illusione apre con 8 grandi film del regista tedesco

Da Ninotchka a Il cielo può attendere, senza questi film della memoria popolare, il cinema non sarebbe il cinema. Dal 24 settembre, ogni domenica, al Quattro Fontane di Roma.
 

di Pino Farinotti

Greta Garbo (Greta Lovisa Gustafson) 18 settembre 1905, Stoccolma (Svezia) - 15 Aprile 1990, New York City (New York - USA). Interpreta Nina Ivanovna 'Ninotchka' Yakushova nel film di Ernst Lubitsch Ninotchka.
venerdì 22 settembre 2023 - Focus

Si apre il 24 settembre al cinema Quattro Fontane di Roma (e dal 2 ottobre al cinema Anteo di Milano) la rassegna L'eterna illusione – a cura di Cesare Petrillo – e organizzata da Circuito Cinema. Ogni domenica mattina alle 11.00, arriva un appuntamento per i nostalgici del cinema del passato e per i giovani desiderosi di scoprire sul grande schermo per la prima volta i film di Lubitsch, Hawks e tanti altri che hanno fatto la storia del cinema. Si parte quindi con il cineasta tedesco Ernst Lubitsch.

Woody Allen e Billy Wilder la pensavano allo stesso modo: “Siamo quello che siamo perché è esistito Ernst Lubitsch". Non c’è dubbio che il regista tedesco (1892-1947) abbia lasciato nel cinema un segno e un’eredità dai quali non si può prescindere.

Essere tedeschi nella prima parte del Novecento significava molto. La Germania dominava la cultura. La Repubblica di Weimar (1918-1933), la sua scuola, avevano stravolto le discipline. Dopo Weimar la letteratura, il teatro, il cinema, l’arte figurativa, l’architettura, il design, non furono più gli stessi. La corrente identitaria poteva chiamarsi Espressionismo. I segnali di quelle invenzioni sussistono ai nostri giorni. Lubitsch era immerso in quel mondo. Ragazzo, era stato allievo di Max Reinhardt, gran maestro di teatro. Giovane, aveva già firmato alcuni film, siamo ancora nel “muto”, ma aveva già dato segnali di quello che sarà il suo carattere artistico: raccontare cose serie attraverso l’ironia e il sorriso. Titoli ricordabili di quel periodo sono Madame Dubarry, La principessa delle ostriche, La bambola di carne e Anna Bolena, personaggio decisamente drammatico, che Lubitsch riuscì a rappresentare secondo il suo stile leggero. 

Un anno decisivo è il 1923, quando il regista, ormai conosciuto nell’ambiente internazionale, decise di traferirsi in California. Era un uomo molto intelligente e dieci anni prima dell’avvento di Hitler aveva già capito che aria tirava in Germania. La presa del potere del nazismo nel 1933 diede origine a una vera emigrazione di talenti verso l’America. Arrivarono a Hollywood registi come Wilder, Zinneman, Preminger, Litvak, e Lang, fra gli altri. Significava, per i film americani, una sintesi di cultura europea nobile e di spettacolo Usa altrettanto nobile. Capolavori, e gli Oscar caddero a pioggia. Quegli artisti realizzarono opere che diedero al cinema una dimensione più alta, di arte generale. Molti di questi titoli portano la firma di Ernst Lubitsch.

La rassegna L'eterna illusione al Quattro Fontane di Roma propone alcuni dei titoli fondamentali, tutti grandi film, alcuni indispensabili al corpo del cinema. Nel senso che il cinema non sarebbe il cinema se non fossero stati realizzati. Sono film che fanno parte anche della memoria popolare, e non è un dettaglio. Alcuni: Il cielo può attendere, Fra le tue braccia, Scrivimi fermo posta, e il mitologico Ninotchka. Oltre a quello che una certa critica considera l’espressione apicale del musical, La vedova allegra.  

Excursus. Due classici. Scrivimi fermo posta del 1939. È la tragicomica storia di una coppia di innamorati che si conoscono solo tramite lettera e che lavorano fianco a fianco in un negozio, ignorando che l’altro è il proprio corrispondente. Sulla carta si trovano adorabili, nella vita insopportabili. Alla fine, però, tutto si accomoda. Nel 1998 Nora Ephron ne fece un remake, C’è post@ per te. Con Tom Hanks e Meg Ryan nei ruoli che erano stati di James Stewart e Margaret Sullavan. Non c’era la magia di Lubitsch, ma c’era qualità.

Il cielo può attendere (1943). Van Cleve (Don Ameche), è un playboy che nella vita ha badato solo a spassarsela. Muore e va all’inferno, dove pensa di dover scontare tutti i suoi peccati. Ma il diavolo, dopo aver sentito la storia della sua vita, lo manda, magnanimo, in paradiso. Dopotutto, che cosa mai ha fatto Van Cleve se non godersi la vita? Anche questo film ha ispirato un remake, Il paradiso può attendere. Lo ha diretto Warren Beatty nel 1978, mettendo sé stesso nella parte di Don Ameche. Diciamo… una buona imitazione.

Due capolavori assoluti. Lubitsch e la politica. Merita un focus particolare Ninotchka (1939). A metà degli Anni Trenta Hollywood aveva aderito a un altro importante input di Washington, quello anticomunista. Del resto c’era un forte precedente contrario: una serie, quasi infinita, di film russi di propaganda comunista. Alcune erano “opere” autentiche, come Potëmkin, altre erano storie ridondanti, manifesti di maniera apologetici del comunismo. Hollywood era disperatamente indietro sul piano dell’ideologia ma decisamente avanti su quello della qualità cinematografica. Così rispose come “ricca occidentale”, ponendo la questione sul piano dello stile, dell’ironia e della superiorità. Produsse Ninotchka e lo affidò all’artista più adatto.
Era la storia di un funzionario comunista donna che corre a Parigi dove tre suoi collaboratori si sono fatti corrompere dal sistema occidentale (parigino, figuriamoci) e si sono dati alla bella vita. L’inflessibile funzionario incontra un affascinante playboy che la introduce a una vita di ricevimenti, suites eleganti, regali alla moda e bottiglie di champagne, mentre là in fondo, sotto la luna, brilla la tour Eiffel. Quando la donna torna a Mosca la vediamo vivere in un appartamentino di due stanze per due famiglie, dove il bagno non ha la porta ma una tenda, e dove un commissario politico, che è l’altro inquilino, ascolta tutto e passa nella camera di Ninotchka per andare in bagno. Il testimone era Greta Garbo, la donna più affascinante, più elegante, “più tutto” del mondo. Catalizzatrice dei sogni del popolo del cinema. Il comunismo era distrutto –certo non solo da Greta Garbo. In America ne rimanevano solo alcune frange, messe all’indice ma non perseguitate perché potevano comunque rappresentare un segnale di libertà. Tutto questo trasmesso dal cinema, dal suo angolo.

La vedova allegra (1934). È in quel film che si esplicitano i famosi “tocchi alla Lubitsch”, geniali. E l’opera di Lehar gli offre tutti gli strumenti. Protagonista è Anna, vedova ricchissima. Vive nel piccolo Pontevedro, luogo di fantasia nei Balcani, più o meno. Se la donna decidesse di sposare uno straniero il Paese farebbe bancarotta. Dunque occorre che lì rimanga. Il conte Danilo viene incaricato di corteggiarla, sedurla e sposarla. E ci riesce. L’operetta è forse la più popolare di sempre, le sue musiche sono parte del più bell’incanto dello spettacolo. Nel 1934 Ernst Lubitsch fece acquisire dalla Metro i diritti e dispose la produzione.
La protagonista era Jeanette MacDonald, fenomeno di “voce” e di fascino. Per la seduzione ci voleva un europeo e fu scelto Maurice Chevalier, forse un po’ anziano per la parte. Il regista adattò le luci e le ombre della scuola tedesca allo sfarzo esplosivo ma elegante, seppure in bianco e nero, dell’avvenenza di Hollywood: rapinose melodie viennesi combinate col musical hollywoodiano travolgente e il rigore dell’espressionismo con la spettacolare estetica di quel cinema.
Perfetta anche la major: il marchio della Metro Goldwyn Mayer è il modello esatto della formula del cinema, delle sue possibilità e del suo sincretismo: un leone ruggente contornato da un nastro di pellicola che reca le parole latine “ars gratia artis”, una sproporzione di estetica, di cultura, ma anche una promessa di spettacolo che sarà di qualità. E nessuno più di Lubitsch sapeva cosa fare in tanto scenario.


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