Sulla carta è difficile accettare l’idea che il time loop sia ancora un meccanismo narrativo lecito, dopo gli usi e i riusi seguiti al geniale Ricomincio da capo di Harold Ramis. Eppure, sorprendentemente, l’abusata tecnica funziona ancora. Persino in salsa horror comedy, come hanno dimostrato Auguri per la tua morte e il pregevole sequel, che sceglie di insistere sulla strada più concettuale. In sintesi, si tratta di un espediente fantastico che permette al protagonista della storia di rivivere la stessa giornata ad libitum, come se si trovasse incastrato in un sortilegio. Da cui si può uscire, naturalmente, a patto di scoprire come.

L’ultimo arrivato della genia iterativa si intitola Palm Springs e, oltre a far sorridere come su grande schermo non capitava da un po’, può vantare una colonna sonora memorabile.

Che è tale grazie al felice incontro del regista Max Barbakow con un ascoltatore onnivoro e preparatissimo come il protagonista Andy Samberg, fanatico di Kate Bush e marito di una musicista d’eccezione come Joanna Newsom. A dare il via alle danze e a conferire il giusto mix di sgangherata gioia e non sense generale è tuttavia una scoperta casuale: Megatron Man di Patrick Cowley, ascoltata da Samberg durante un viaggio in auto e divenuta una sorta di ossessione, fino a renderla un fulcro della narrazione di Palm Springs. Attorno alla electro anni ’70 di Cowley, infatti, Barbakow ha costruito una memorabile coreografia di ballo, una delle scene clou del film.

Ma accanto al vintage sull’orlo del trash, la colonna sonora del film alterna oscuri classici del passato al confine tra country e rock, come No Other di Gene Clark e In My Hour of Darkness di Gram Parsons: due malinconici capolavori nati dal talento di due dei più sfortunati e talentuosi artisti fuoriusciti dalla mutevole famiglia dei Byrds.

Non ha bisogno di presentazioni invece Leonard Cohen, che con The Partisan impreziosisce il lato più malinconico della vicenda di Sarah e Nyles; la succitata Kate Bush è rappresentata da Cloudbusting, un brano rappresentativo – senza essere una hit inflazionata – del sofisticato pop performativo dell’artista britannica.

Le chitarre surfeggianti in salsa lounge di August 10 dei Khruangbin, talentuosa nuova band dell’orizzonte indie, sembrano invece trasmettere l’idea di un tempo sospeso, di una bolla in cui divertirsi e lasciarsi andare senza fermarsi a riflettere sul senso di un’esistenza sempre più assurda e vuota. Ma è quando ti soffermi su un pensiero simile e scendi a patti con il caos che subentra il genio di John Cale, ex Velvet Underground, con uno dei suoi anthem: You Know More than I Know, “Ne sai più di quanto ne sappia io”.

Immancabile Cyndi Lauper: quale titolo più adatto di Time After Time per raccontare la storia di Sarah e Nyles? Una scelta quasi obbligata, almeno quanto Forever and Ever del mitico re del kitsch Demis Roussos, popstar greca dei ‘70 proveniente dal progressive degli Aphrodite’s Child.

A chiudere in bellezza ci pensano i cantori della positività soul anni ’80, aficionados delle colonne sonore del cinema americano in zona Sundance: Daryl Hall e John Oates, che con When the Morning Comes suggellano il tutto, all’insegna di un happy ending nel segno dell’amore e del disincanto.


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