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Robinù, il giornalismo puro di Michele Santoro

Presentato alla 73. Mostra di Venezia un toccante documentario sui baby-killer di Napoli e sulla guerra combattuta ogni giorno tra i vicoli della città.
di Giancarlo Zappoli

Robinù

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In foto Michele Santoro alla 73. Mostra di Venezia, dove ha presentato il suo Robinù (sezione Cinema nel Giardino).
giovedì 8 settembre 2016 - Mostra di Venezia

Un mondo di soldati bambini che imparano a sparare a 15 anni, a 20 sono killer professionisti e talvolta non arrivano ai 30. Michele Santoro li incontra e li fa parlare. Ma non si trovano, come si potrebbe pensare, in qualche area del continente africano. Vivono e combattono una guerra, che è arrivata a contare fino a 80 morti, nelle vie e nei vicoli di Napoli.

Dopo aver visto questo importante e anche toccante documentario viene da pensare che a Michele Santoro abbia fatto un gran bene la pausa sabbatica da talk show in cui settimanalmente doveva inseguire lo spesso non esaltante gioco dei partiti politici aizzando o frenando gli scontri. Ha potuto così tornare al giornalismo puro. Quello, per intenderci, che fa parlare i volti e i gesti e non sovrappone mai, neanche per un secondo, la voce o l'immagine di chi ha pensato e voluto il progetto che è diventato film.
Giancarlo Zappoli

Se non si fosse chiamato "Robinù" (con un riferimento all'appellativo che un padre dà al figlio per sottolinearne comunque la generosità verso i più deboli) avrebbe potuto intitolarsi "A viso aperto". Perché ciò che colpisce è, sin dalle prime inquadrature, che nessuno di coloro che intervengono si nasconde allo sguardo delle telecamere. Ogni frase, ogni gesto, ogni assunzione di responsabilità è esplicita riferibile a chi ne è l'autore. Questo rende ancor più agghiaccianti le testimonianze di baby killer che dichiarano la propria condotta di vita con la naturalezza assoluta che potrebbe avere un loro coetaneo nel descrivere la quotidianità scolastica o l'ultimo videogioco. Il problema qui è che di giocoso non c'è nulla e quando si sentono pronunciare farsi di elogio nei confronti di un giovane boss ucciso come "Insegnava tante cose: insegnava a sparare..." il sangue si raggela.


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Chi ha sollevato polemiche pretestuose, utili a finire sulle prime pagine dei giornali, sul presunto rischio di emulazione che la serie tv Gomorra avrebbe potuto suscitare, viene clamorosamente smentito da quanto emerge in questo documentario. Perché nessuno dei baby aspiranti boss mostra di aver avuto bisogno dei personaggi della fiction per desiderare di entrare nel mondo della criminalità più o meno organizzata. Perché si è trattato se non addirittura del liquido amniotico comunque dell'aria che hanno respirato sin da piccoli anche se assistiamo a dichiarazioni di genitori (quando non sono in carcere) che si dicono non conniventi ma certo impotenti ad indirizzarne le vite.

Santoro non manca di far sottolineare ai diretti interessati quanto la pura e semplice opera di detenzione non faccia altro che allontanare chi delinque dalla società per farcelo poi rientrare, a fine pena, più determinato che mai a riconquistare il tempo perduto.
Giancarlo Zappoli

Ovviamente non tutti i giovani napoletani appartengono a questo lato oscuro della società (e ce ne viene anche fornito un significativo esempio) ma il grido di allarme che viene lanciato dovrebbe essere ascoltato da chi ha a cuore il futuro dei più giovani e da uno Stato che non può continuare a fare finta di niente per una sorta di quieto vivere che si trasforma sempre più spesso in un inquietante morire.


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