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Il cinema tradizionalista

Eastwood sul viale della memoria: Jersey Boys.
di Roy Menarini

In foto una scena del film Jersey Boys di Clint Eastwood.

sabato 21 giugno 2014 - Approfondimenti

Il problema è Gran Torino. Un film talmente perfetto, distillato, tempestivo, testamentario, profondo e umano che sembrava realizzato apposta per chiudere una carriera. Lo doveva aver pensato anche Clint Eastwood, almeno per quel che riguarda la recitazione (e in effetti aveva fatto balenare l'ipotesi che il suo corpo steso sul selciato andasse considerata una epigrafe cinematografica: poi purtroppo ha ceduto e interpretato l'inutile Di nuovo in gioco). Anche come autore, il regista americano - che ha segnato tutti gli anni Novanta e Duemila con una densità di capolavori quasi stordente - sembra aver raggiunto con quel film un limite narrativo e un punto di fusione emotiva dopo il quale si è rivelato impossibile mantenere la tensione.

È così cominciata un'epoca di opere rispettabili e al solito neoclassiche, con particolare predilezione per il biopic. Se J. Edgar va considerato più per la ricerca di un personaggio "impossibile" che per la sua riuscita, con Jersey Boys il problema è ribaltato. Al contrario di Hoover, non c'è alcun mistero nella vita dei Four Seasons. La loro storia è la medesima di tanti musicisti, compresa la provincia di provenienza e i rapporti ambigui con la malavita. Ascese, cadute, tragedie personali e incomprensioni, altrettanto. Si può accreditare l'idea che Eastwood abbia intravisto qualcosa di sé in Frankie Valli e Tony De Vito, in un'epoca che egli stesso ha vissuto dalle retrovie, con grande voglia di sfondare. Così come, nei Four Seasons, deve aver apprezzato un gruppo giovanile dalle forti ascendenze jazz, quindi più vicino ai suoi gusti rispetto ad altri protagonisti dell'odiato rock'n'roll. E, ancora una volta, deve aver amato la possibilità di far trasparire i propri valori - peraltro un po' irrigiditi ultimamente - come il mai domato spirito patriarcale, il pessimismo nei confronti dello spirito di gruppo (e quindi l'individualismo contraddittorio messo a dura prova nella storia di una band), o la diffidenza verso i modernismi - come mostra l'ironia dei personaggi nei confronti dell'arte moderna.

Il fatto che la sceneggiatura, scritta dai medesimi autori del musical, sia un mezzo disastro dove i personaggi vanno e vengono a caso, e i narratori interni vengono dimenticati per larghi tratti del racconto, non significa che tutto ciò che fa Eastwood qui come regista vada considerato "contro" la sceneggiatura: sarebbe una visione troppo romantica e farebbe pensare che il venerato ultra ottantenne deve obbedire ai diktat degli studios senza poter modificare uno script imbarazzante.

E dunque? Se è vero che in alcuni momenti Jersey Boys commuove per purezza e in altri deprime per palese inconsistenza senile, a ognuno di noi resta la scelta di come indirizzarsi verso il grande autore. Perdonare questa fase (magari solo transitoria) e augurargli ancora vent'anni di cinema è forse il gesto più rispettoso. Affermare che ci troviamo di fronte a un capolavoro, almeno per chi scrive, sarebbe prendersi immeritatamente gioco di un maestro.

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