Robert Zemeckis è inacchiappabile come tutto il suo cinema. Un vero e proprio Roger Rabbit della settima arte che sguscia e sfugge alle classificazioni. Autore ma anche no, per via della sua ostinazione a esaltare il gioco di squadra della macchina-cinema, con gli attori, spesso ricorrenti, gli sceneggiatori e i tecnici, sempre i migliori sulla piazza. Un direttore d'orchestra capace di adattarsi a ogni spartito: o almeno, questo è il suo insopprimibile desiderio. Superare l'esperienza precedente. Osare qualcosa di nuovo e inedito, poi magari tornare al canone spiazzando lo spettatore. Demiurgo del cinema fantastico "prescelto" da Steven Spielberg insieme a Joe Dante come continuatore o "esecutore" ma presto smarcatosi dal mentore per cercare una via propria. Spesso premiato al botteghino e non solo. Forrest Gump (1994), il film simbolo degli anni 90 e della nuova frontiera clintoniana, ha vinto 6 Oscar ed è ormai considerato uno dei classici americani.

Zemeckis parte dall'avventura più romanzesca (All'inseguimento della pietra verde, 1984), passa da un primo epocale esperimento di ibridazione tra live action e animazione (Chi ha incastrato Roger Rabbit, 1988) e arriva alla sperimentazione pura di Polar Express (2004) e A Christmas Carol (2009) dove inventa, insieme appunto a collaboratori che gli invidia anche la Nasa, la performance capture, una tecnica capace di "digitalizzare" il lavoro di attori in carne e ossa. Tom Hanks o Jim Carrey recitano con dei sensori che trasferiscono ogni movenza a un corrispettivo ricreato dalla grafica computerizzata. Nasce così un personaggio sia analogico che digitale, o un avatar al contrario. Il significato originario di avatar (dal sanscrito) significa "disceso" e indica l'incarnazione fisica della divinità appunto discesa sulla Terra. Nel nostro caso, è il corpo dell'attore a essere "disincarnato" nel pixel. Poi, con un doppio salto acrobatico, Zemeckis torna al cinema più classicamente hollywoodiano con Flight (dal 24 gennaio nelle sale) dove gli effetti speciali sono funzionali a una storia edificante come in Forrest Gump o Cast Away (2000). Con quest'ultimo titolo condivide l'innesco narrativo dell'incidente aereo e il tema del naufragio, anche se nel caso del pilota Denzel Washington di Flight si tratta di un "naufragio esistenziale".

Il titolo più ambizioso del cineasta è Contact (1997) storia di una astronoma (Jodie Foster) che pensa di avere captato segnali di vita dallo spazio e per questo, parte... Ideologicamente "fratello" di Forrest Gump (Clinton pure qui), il film è quasi un manifesto poetico-estetico, dove l'agognato altrove è concettuale e riguarda le possibilità del visibile e del cinema stesso. Non pochi critici, affascinati dalla patina filosofica, hanno addirittura definito Contact il «nuovo 2001: Odissea nello spazio».

Dove si incarta Robert Zemeckis è nella narrazione. Storie sviluppate attraverso sceneggiature perfette, come tutto il resto, ma sempre molto programmatiche, prevedibili nel percorso di crescita interiore dei personaggi e dipendenti da meccanismi ricorrenti come le agnizioni, ovvero lo svelamento delle identità o della vera natura dei protagonisti (esemplare in questo senso Ritorno al futuro, 1985, il titolo più "mitico" del Nostro). Ricorrenze che rendono spesso banali i racconti, come avviene per Flight con l'insistito, didascalico e pure moraleggiante finale che inficia le non poche belle intuizioni precedenti. Forse il direttore d'orchestra Zemeckis avrebbe bisogno di un primo violino scrittore capace di aprire il contenuto di spartiti pur eseguiti benissimo alla sorpresa e a uno stupore più viscerale.