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Pieraccioni, De Sica e ...Aristarco

Il pubblico e i critici: l'eterno confronto.
di Pino Farinotti

Io & Marilyn vs Natale a Beverly Hills
Suzie Kennedy . Interpreta Marilyn nel film di Leonardo Pieraccioni Io & Marilyn.

lunedì 21 dicembre 2009 - Focus

Io & Marilyn vs Natale a Beverly Hills
Un quotidiano importante ha analizzato in chiave critica, con analisi dotta, profonda, strutturalista su contenuti, simboli, dialogo e linguaggio, i due titoli che si sono contesi il week end al boxoffice, Io & Marilyn e Natale a Beverly Hills. Un "quasi-panettone" il primo, un panettone stagionato il secondo. Ho già avuto modo di scrivere che Io & Marilyn può far parte della categoria "film", mentre "Natale" è il solito "prodotto" di Neri Parenti. Insomma, Pieraccioni è meglio di Parenti. Ma è legittimo, in chiave critica, appunto, omologarli. Solo che non vale la chiave critica. È impropria ed è superflua. È come coinvolgere l'F.B.I. in un divieto di sosta. Arte
Una volta, a una mia affermazione che il ruolo del critico è ormai marginale, un docente d'arte, molto importante, mi rispose che il concetto poteva valere per il cinema ma non per l'arte. Nei miei corsi di estetica del cinema all'Accademia di Belle Arti di Brera, a contatto diretto con quella sorella nobile, ho capito cosa intendesse il docente risentito e ho messo a fuoco le differenze. In veloce sintesi: il cinema bada ai grandi numeri, c'è un'industria e c'è un bacino di pubblico molto vasto. Il recensore di film trasmette al pubblico -e qui la sintesi diventa da veloce a estrema- la sua visione e le sue indicazioni. Solo che visione&indicazioni del critico vengono colte solo da una piccola parte dell'utenza, l'altra parte si guarda il film e decide se le piace. Anzi, diffida dell'indicazione del critico, spesso, a ragione.

Compagno
Il critico d'arte invece è un compagno di viaggio degli autori, si muove prima del prodotto finito, agisce più sulla strategia che sull'opera. Non che questo ruolo sia rassicurante, beninteso, perchè nasce da un paradosso davvero anomalo, perché si attribuisce, avoca a sé, responsabilità troppo grandi, innaturali. Dal 1907, quando con Les demoiselles de Avignon Picasso spezzò la pittura e di conseguenza estese la riforma alla comprensione dell'arte, i critici hanno assunto una posizione di vero dominio. La valenza intellettuale del Cubismo letteralmente si opponeva al momento sentimentale, che era il momento largamente prevalente, della cosiddetta fruizione dell'opera. La sindrome magnifica e profonda, dettata da migliaia di anni di rappresentazioni artistiche non bastava più, non valeva più. Sorpassata dunque la fase sentimentale, naturale e... comprensibile dell'opera, diventava il titolare&maestro&custode al quale ti dovevi affidare. Era lui a sentire per te e a capire per te. Ma c'è di più, legiferando su tutto, naturalmente non trascurava il mercato. Dopo aver dunque spiegato a te appassionato, che dovevi affidare a lui il tuo sentimento e la tua cultura, poi spiegava al collezionista che per quella certa opera concettuale –e per il concetto dovevi fidarti di lui- potevi anche spendere qualche centinaio di migliaia di (diciamo per semplificare) euro. La critica d'arte, si pone così come momento indispensabile, però ti lascia al buio. Un'opera dunque non è più sentimento o sindrome personale, ma... atto di fede. Naturalmente all'interno del sistema vale anche il concetto che ci siano operatori capaci che sanno decifrare ciò che il normale utente non intuisce, e che sappiano anche intuire la qualità, e che sappiano anche essere affidabili. Bacino, target, categoria, ruolo: diversi. Il critico d'arte è certo più funzionale di quello di cinema, ma, ribadisco, il fatto non è rassicurante.

Definizione
In un suo intervento sul Corriere, Aldo Grasso recensisce il volume di Mariarosa Mancuso Nuovo cinema Mancuso. Un anno in sala con la criticona. Grasso, che non è per definizione critico di cinema, ma, forse proprio per questa ragione ne capisce molto, dopo un (sin troppo) caldo apprezzamento per la "criticona" del "Foglio", ragiona sulla funzione dei critici. Col suo stile guanto di velluto eccetera, con educazione e un po' di accademia (del resto di accademico trattasi) letteralmente tramortisce la filosofia e la funzione dei critici. Partendo da una sintesi dell'idea critica di Aristarco conclude: "... siamo riusciti a creare anche una via italiana della critica militante. Nascono così strane figure di critici, ora produttori ora funzionari Rai, ora biografi ufficiali di Fellini, che conciliano il doppio mestiere senza tanti scrupoli.... A contrastare il militante, sempre per via accademica, nascono poi i critici strutturalisti, i critici sociologi, i critici semiologi, i critici narratoroligi, i critici decostruenti capaci di produrre guasti alla lingua italiana..." Magnifico.

Digressione
È opportuno, a questo punto, una digressione su Guido Aristarco, citato da Grasso con queste parole: "Forse molti lettori non sanno nemmeno chi sia il prof. Aristarco, ma altri ricorderanno come per anni in Italia non si sia potuto parlare di cinema senza fare i conti con l'invadente fantasma del professore." Io sono uno di quelli che "ricordano". Guido Aristarco è stato il protagonista "pesante" del cinema detto da Grasso, come critico, storico, intellettuale tout court. Studioso, di cultura marxista, aveva una visione cosiddetta storiografica dell'opera. Significa che le storie narrate dovevano avere sempre una base di vicenda vera nell'ottica dell'idea marxista, cioè del bene e della verità assolute. Il grande modello di Aristarco era il cinema rivoluzionario sovietico. I titoli della sua filosofia erano Il "Potemkin"di Eisenstein, naturalmente, storia della rivolta dei marinai di quella corazzata a Odessa nel 1905; ancora di Eisenstein, Que vive Mexico, episodi della rivoluzione messicana; L'uomo con la macchina da presa di Vertov, un diligente documento di vita della gente a Mosca, durante l'arco della giornata; L'arsenale di Dovzenko, storia di uno sciopero dell'arsenale di Kiev; La terra, ancora di Dovzenko, poema sull'ideale rivoluzionario; Ciapaiev dei Vassiliev, il sacrificio di un eroe della rivoluzione morto combattendo i Bianchi. In questi film c'erano certi momenti di grande qualità, soprattutto in Eisenstein, ma la propaganda era davvero invadente, secondo l'aggettivo usato sopra. Ma per Aristarco non era solo Russia, un'altra sua piattaforma fu il nostro realismo, che si prestava alla sua idea storiografica. La vicenda di Anna Magnani in Roma città aperta di Rossellini era quella vera di una popolana romana. Gli episodi di Paisà, ancora di Rossellini, seguivano rigorosamente il percorso della guerra in Italia dalla Sicilia lungo lo stivale fino al Po. Ladri di Biciclette di De Sica è il più efficace documento della vita della nostra gente nel primo dopoguerra. Io dico che esisteva un altro cinema meritevole e figlio di un Dio non minore. Un esempio: Cantando sotto la pioggia possiede la stessa nobiltà del Potemkin con una dotazione in più, non da poco, la felicità, e una in meno, la propaganda. Dunque "Que vive Singin in the Rain". Con un'ultima nota: non la storiografia ma la Storia (esse maiuscola), sul marxismo ha decretato che di abbagliante abbaglio trattavasi.

Discrezionalità
Ma a Guido Aristarco si deve qualcosa di molto importante al di là di tutte le discrezionalità. Rapportando il cinema al sociale, alla letteratura e alle arti figurative, lo ha reso di fatto un'arte nobile. E certo non è poco. Un segnale preciso e concreto, e di grande importanza accademica è il concorso vinto dal professore per la prima cattedra di Storia e Critica del cinema, insieme a Luigi Chiarini. Successivamente, altra altissima legittimazione culturale, Aristarco divenne il titolare della disciplina del cinema presso L'Accademia dei Lincei. Comunque, il cinema gli deve molto. In chiave di legittimazione mi piace, ancora una volta citare Cesare Pavese che, alla domanda su chi fossero i suoi narratori preferiti rispose Thomas Mann e Vittorio De Sica. Per attitudine mi sento più vicino alla ratifica di un magnifico inventore di opere che a quella di un colto analista di opere altrui.

Sintesi Nei miei interventi, per ragioni di sintesi e di chiarezza, risolvevo i concetti con didascalie secche: "dalla parte del pubblico"; "piace alla critica dunque non piace al pubblico"; "non piace alla critica dunque piace al pubblico"; "un grande film non è mai proiettato in una sala troppo vuota o in una troppo piena." Il discorso è molto complesso ed è impossibile tracciare una formula. Che esista la critica dei film è naturalmente legittimo. Se il critico è un competente che ti dà delle informazioni utili, allora è benemerito. Ma se vuole modellare l'utente e soprattutto l'elettore a propria immagine e somiglianza allora è ragionevole, anzi doveroso, che l'utente diffidi di lui. Al tentativo della critica di cinema di accreditarsi come quella dell'arte, cioè come ispiratrice e compagna dell'opera, ha risposto, seccamente, un grandissimo, Dino Risi: "i critici sono coloro che vorrebbero farti fare i film che loro non sono capaci di fare." Ma ci sono i recensori e i recensori devono scrivere, comunque. That is the question. Per la complessità della "question" una soluzione univoca, come ho detto, non è formulabile. Il fatto è che scarseggia la qualità, il materiale cui dedicarsi, un materiale che ispiri passione e una passione che ispiri scrittura. In attesa di cause migliori cui dedicarsi è auspicabile, qualche volta, rinunciare a scrivere. In Io & Marilyn c'è scarsa qualità, in Natale a Beverly Hills non ce n'è nessuna. La gente ci va con spirito festivo, senza pretese. Che ragione c'è di... destrutturarli?

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