C'è ancora domani

Un film di Paola Cortellesi. Con Paola Cortellesi, Valerio Mastandrea, Romana Maggiora Vergano, Emanuela Fanelli.
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Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 118 min. - Italia 2023. - Vision Distribution uscita giovedì 26 ottobre 2023. MYMONETRO C'è ancora domani * * * 1/2 - valutazione media: 3,60 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

"Delia" e "Michal" donne speculari e contrarie Valutazione 2 stelle su cinque

di Alessandro Spata


Feedback: 1173 | altri commenti e recensioni di Alessandro Spata
domenica 10 dicembre 2023

L’autrice nel tentativo di non lasciare nello spettatore l’amaro sapore di un “destino diconflittualità di genere permanente” rimane, per così dire, “al centro contro gli opposti estremismi”.
Ed ecco che qui, come da programma, assisteremo all’alternanza di sentimenti misti d'ironia e di angoscia sublimata, come nella vita, dopotutto, forse.
Sinceramente, all’uscita dalla sala ho avuto la sgradevole sensazione di aver speso dei soldi  per qualcosa che finirà al macero dell’oblio, di qui a pochi giorni, di qui a poche settimane. Dubito che questo film diventerà l’occasione per un profondo esame sociale (sempre ammesso che il cinema abbia questa funzione) Mentre scrivo altri femminicidi e stupri ci riportano le cronache. E monta feroce l’impressione  che lo spettatore recandosi al cinema non abbia fatto altro che portare i suoi fiori all’ennesimo capezzale dove si celebra la fine della coscienza collettiva. È anche vero che portare fiori ad un funerale non esclude che si possano compiere contemporaneamente opere di bene, tutto sommato. Il problema sarebbe se ci fermassimo ai fiori, semmai.
E poi il bianco e nero “scelta autoriale”, si dice.Sinceramente vi dico, invece, che è proprio questa fotografia in stile “laccato-opaco”, questo suo “allure minimale” che sembra funzionale proprio allo stile leggero della commedia all’italiana che intende non “scandalizzare troppo il borghese”. E allora si preferisce svaporare i contrasti e diluire le contese, si edulcorano i sensi e si smorza la reattività e così finisce che pure “i carnefici appaiono uomini più spauriti e più isolati delle donne stesse". E le botte si stemperano a suon di "passi di danza”. Quando, qui ci sarebbe bisogno, semmai, di colori brillanti, smalti satinati che riflettessero in pieno tutto l’orrore che vive la protagonista e la crudeltà dell’ambiente in cui si muove e che la soggioga.
 Questo - non è un film politico, né ideologico, né di parte -. E non è un complimento!
È ovvio a tutti che questo film cada in un periodo storico italiano molto sensibile e sensibilizzato dai recenti fatti di cronaca che hanno visto decine di donne morte ammazzate da partner ed ex partner e dove il numero delle violenze sono sottostimate perché non tutte hanno ancora il coraggio o la possibilità di denunciare oppure perché qualcuna crede ancora che “se ti mena, vuol dire che ti ama”.
Quindi, fatalmente questo film finisce per assumere il profilo di “evento sociopedagogico”, quasi, che esula dalla valutazione della mera “forma” artistica dell’oggetto film in sé.
E il cinema ha una funzione pure educativa, si dice, se è vero che il cinema è il medium che più di tutti è capace di decodificare i messaggi di questa nostra “età contemporanea di transizione”. 
E allora, mai come adesso la “forma” diventa “sostanza”. Perché, sempre secondo me, non sarebbe concesso neanche lontanamente (sor)ridere nel bel mezzo di uno scempio morale, etico e sociale. È possibile che tutto debba essere sempre e per forza “divertente” per essere attraente?
Mi è balenata l’immagine del volto di Robert De Niro che interpreta Al Capone nel film di De Palma “The Untouchables” - Gli intoccabili, allorché il protagonista mentre è nel palco di un teatro a commuoversi dinnanzi all’esibizione di Caruso, riceve la notizia della morte di Jimmy Malone il poliziotto interpretato da Sean Connery. E qui De Niro dà ennesima prova delle sue alte doti espressive mentre piange e ride contemporaneamente per il “lieto evento” che gli è capitato. Voglio dire che la commedia all’italiana (tranne qualche eccezione, forse) mi appare come uno strumento tipico del “chiagni e fotti”. Cioè siamo maestri, pure nel cinema, nel lamentarci, ma mentre mugugniamo cerchiamo pur sempre di trarre dal putrido quanto ci serve e fino a quando ci è possibile. Questo film di sicuro sancisce per la Cortellesi un bel successo personale, meritato quanto volete. Ma non andiamo oltre, temo.
Se avesse voluto insistere nella sua azione edulcorante, ma tutto sommato verosimile, per tenersi a debita distanza dagli “opposti” stereotipi di genere femminile e maschile (e con relativi pregiudizi al seguito) la regista avrebbe potuto sottolineare con più decisione l’idea che uomini e donne siamo tutti oppressi alla fine da un nemico comune seppure molto astratto: il mito della “struttura sociale” che ci vuole tutti sottomessi; tutti “condannati ai rispettivi talenti”. Tutti prigionieri stereotipati nell’ordine del “discorso maschile”. Però poi si dovrebbe avere il coraggio di andare fino alle estreme conseguenze di tale assunto.
Allora, se è vero che la “tradizione” o il mito della “struttura sociale” esercitano un influenza decisiva nel confronto tra uomini e donne in una comunità sociale e all’ombra di un certo periodo storico, qual è il legame di Delia madre e sposa con la tradizione della sua comunità e del suo tempo ?Come si può conciliare la dipendenza totale dalla tradizione (quella che vige in casa di Delia, almeno) con il rifiuto di essere alla mercé di questa? Bisognerà decidere qual è la priorità, forse. E qual è l’obiettivo qui?: il rispetto di sé o conservare una relazione con l’ambiente circostante pur arrendendosi alle richieste-pressioni di quest’ultimo anche solo per salvare la pelle? Delia, qualunque sia il suo obiettivo, sembra “scegliere” la seconda opzione:uniformarsi alla tradizione, adeguarsi ai “sacri” precetti della società del suo tempo con puntiglio asfissiante e tale remissiva accondiscendenza da apparire persino insopportabile - quando non discretamente stolta–. “Non ci piace quello che le fanno, ma soprattutto non ci piace quello che Delia non fa (o “non può fare? O “non vuole fare?”)”.  
 Delia è un'anticonformista per i suoi tempi a suo modo e un intellettuale per la sua abitudine a porsi delle domande. È una contestatrice in embrione ancora ferma allo stadio dell’invocazione, della preghiera, per così dire. È “ostinata” nel pensiero, ma non così irritante nell’agire, alla fin fine. Per la serie “non capisco, ma mi adeguo”, volente o nolente.
Delia, forse, riuscirà ad affrancarsi dalle afflizioni maturando il convincimento che non può essere lei sola e “da sola” a governare la propria vita. C’è bisogno di coinvolgere interi pezzi sempre più vasti di comunità femminile e maschile.
Ed è proprio qui che l’ambiguità non si risolve, però, secondo me. Perché se è vero che la massa fa la forza (e il “voto” è sicuramente un modo buono per coinvolgere le masse) è anche vero che a livello individuale rimane il dubbio che manchi qualcosa. E questo qualcosa di individuale Delia come sembra risolverlo? Da una parte il sospetto è che si tenda sempre a delegare agli “Altri” o a qualcos’«Altro da noi». Il voto qui per la funzione abnorme di cui è caricato sembra davvero una delega in bianco ad un’entità non ben definita (la “società?”) che risolve i nostri guai. È un’idea bella e romantica di sicuro, ma temo non possano bastare le urne elettorali come soluzione dei problemi in generale, soprattutto in un tempo in cui nessuno quasi va più a votare ormai. Dall’altra parte c’è il timore che all’individuo in quanto tale per provare ad emanciparsi dal concreto squallore quotidiano, non resti che “far saltare in aria i negozi”, alla bisogna. Insomma, l’alternativa sul piano individuale sembra essere sul presente il terrorismo (legittima difesa?) e sul piano collettivo l’esercizio rituale del diritto di voto cui l’individuo affida il riscatto personale (e della prole femminile), ma questa volta proiettato in un “prossimo” futuro auspicabile.
L’«umiltà» intesa qui come sottomissione della moglie-madre Delia acchiappa la simpatia e l’empatia sacrosanta della platea che sia capace di un minimo di umanità, ma diventa al contempo inammissibile, riprovevole, persino, ma non perché Delia ci fa pena per le angherie che subisce (o non soltanto, almeno), ma perché in qualche modo Delia pare decidere alla fine di rimanere “dentro“ l’«antinomia» della sua vita, dentro il conflitto in cui è immersa senza riuscire a delineare apparentemente soluzioni plausibili (oscillando tra il senso civico del voto e l’intimidazione mafiosa dell’attentato al negozio). È questo che è sconvolgente. E nel frattempo che ti (di)batti come fai ad educare la tua giovane figlia al rispetto di sé, mentre tu accetti un “amore” che mai potrà attecchire sul fondo arido di un rapporto matrimoniale dissestato?
 È qui che la protagonista come tante donne nella realtà ieri come oggi sembrano struggersi.
Non che Delia sia “colpevole”, intendiamoci. Ovviamente, non si possono considerare “colpevoli” le donne che non sanno o non possono opporsi. Chi non si ribella acconsente? No! Chi non si ribella subisce! 
Qui la protagonista semmai, forse, ci vorrebbe dire della difficoltà tante volte o dell’impossibilità di piantare paletti, di segnare confini in una comunità tutta che ti rema contro.
E allora, la protagonista finisce tante volte per apparire leziosa, insopportabilmente bonacciona. In certi momenti la regista per ottenere l’effetto comico-pietistico (ridere e piangere al contempo come il De Niro-Capone) sembra volerla fare oggetto di “derisione-benevola”. Secondo me, la Cortellesi insiste un po’ troppo con la sua recitazione volta a esasperare l’aspetto mansueto di una serenità quasi Zen del personaggio per molta parte del film.
Eppure, nella controluce di questo patinato bianco e nero, sembra a tratti che la regista abbozzi un sarcastico ritratto di certa mentalità pure femminile. Perché il contesto dell’ortodossia sociale in cui si muove Delia è talmente opprimente che anche le femmine finiscono per interiorizzarne i principi in diversi casi.
Condannata da dio (chissà) e dagli uomini (più verosimilmente) ad essere costantemente divisa tra l’anelito di libertà e la rassegnazione quasi religiosa alle regole imposte. Delia può apparire come una fragile donnina, a tratti pure sciocca, di una "ingenuità" infantile in modo quasi irritante (“Forrest Gump” al femminile). Non sembra a tratti una sorta di “cenerentola” pronta a riscattarsi col primo principe azzurro in circolazione? (magari proprio lo spasimante di vent’anni prima?). Ma è anche vero che assumere un’aria afflitta di condiscendenza è l’unico modo per sopravvivere tante volte in un mondo di uomini; per raggirare o per non spaventare gli “uomini-bambini” o forse soltanto per disinnescarne preventivamente l’aggressività e la violenza. Le donne come Delia, oggi come allora, se rimangono vive è soltanto tante volte perché rispondono ai canoni di  “uomini che cercano una donna delicata" (da “Un Appuntamento per la Sposa” di Rama Burshtein) ovvero non una "attaccabrighe". E Delia tutto sommato è pronta a farsi “turbare” dal “sovversivo” pensiero di un’ingiustizia che non le consente, ad esempio, di essere pagata quanto un uomo, ma non riesce ad andare oltre questa splendida consapevolezza.
E come si addice alla commedia all’italiana il farsesco non diventa mai vera contestazione alla fin fine. E’ vero, ci piacciono le donne “delicate” nella realtà e anche i film “cortesi” al cinema. Di sicuro non ci attraggono granché quei film in cui si descrivono brutalmente le mortificazioni e le angosce di una “guerra spietata di genere“, o dove si propone un oltranzismo urticante di certa ideologia femminista, o dove la prepotenza maschilista sembra irredimibile. Per intenderci siamo lontani da “Una donna promettente” di Emerald Fennell o “Solo mia” di Javier Balaguer o “Ti dò i miei occhi” di Icíar Bollaín tanto per citarne alcuni che però, guarda caso, non ebbero la stessa risonanza (in Italia, almeno) a suo tempo. Forse perché “non era il momento giusto?”, O forse perché vedere certi film ci procura un discreto disgusto, ci sgomenta? In certe immagini l’uomo proietta l’inconfessato timore di poter agire da persecutore e la donna non ha poi tutta questa voglia di pensare alla probabilità di ritrovarsi in casa quel persecutore. Invece, pare che ci sia più comodo pensare a uno che “te n’ammolla una ogni tanto, ma forte” e che contemporaneamente è capace di confondere “i fenici con i fenicotteri”, eventualmente. Davvero divertente. Dal morire dal ridere. E anche commovente, persino, "Benedetta" ignoranza.
Tuttavia, il fatto che la regista non scavi a fondo su certe questioni non vuole dire che l’«azione» o la “non-azione” di Delia, in tutte le sue sfaccettature, non ci ponga un problema.
E dunque, chiediamoci “che cosa avrebbe potuto fare una donna nel 1946? Che cosa dovrebbe essere disposta a fare ancora una donna oggi nel 2023 per opporsi all’andazzo?Allora, non sarà sfuggito che, comunque la pensiamo, Delia ci pone con la sua “bonarietà irritante”, con la sua “azione” sempre “interrotta”, un quesito mica da poco valido in tutti i tempi e contesti:- Qual è il ruolo degli attori sociali nello svolgimento dei processi storici? È la società edificata a partire dalle interpretazioni degli individui? Oppure è la “struttura sociale” a prevalere sui singoli? -. Tutte robe da far tremare le ginocchia! Questi sembrano quesiti dal sapore metafisico o retorico tanto da non presupporre risposte certe, né univoche. Eppure è qui che forse si gioca sempre la questione dei diritti di ciascuno e della libertà individuale e collettiva.
E dunque, qual è l’alternativa a tutto questo? Tra i due estremi delle bombe da un lato e dell’esercizio del diritto di voto dall’altro tertium non datur, quindi? Ma qui ci vuole un “cambiamento”, direbbe “Michal” la protagonista de “Un appuntamento per la sposa” di Rama Burshtein.
Delia di “C’e ancora domani” mi sembra davvero a tratti l’equivalente più “laica” di “Michal” di “Un appuntamento per la sposa”. Uguale e contraria, però. "Michal" riesce a salvare capra e cavolio almeno così s’illude, ma l’importante è crederci. Così "i valori e le norme del sistema diventano anche i valori e le norme di Michal. In tal modo, magicamente non li subisce più.
E finisce (incredibilmente per noi gente secolarizzata) per sentirsi libera all’interno di un’ortodossia religiosa-sociale che di fatto ne restringe la libertà.
"Delia" invece sembra capire (ma quanto è davvero consapevole?) di non poter essere libera all’interno di una società anche questa “ortodossa” a suo modo e prova ad abbozzare una “ribellione”, ma pur sempre, all’interno del sistema dato “accettandone” o “subendone” i precetti alla fine. Anche Delia sembra a suo modo credere di poter utilizzare la “tradizione”, il “mito della struttura sociale” che “su tutti incombe”, come soluzione per realizzare i propri desideri (e quelli di sua figlia) di giustizia e libertà nel presente. E quello di mettere bombe per risolvere le questioni sembra davvero rientrare in una certa “tradizione” di stampo propriamente “maschile”.
In una società violenta che “violenta” le sue donne nel corpo e nello spirito, la risposta, ancorché individuale, non può che essere la violenza? (il negozio che esplode). Di fatto quale modo migliore di delegittimare il modello maschile se non quello di destabilizzarne la sua economia? L’esplosione del negozio equivale simbolicamente ad attaccare le basi economiche su cui la classe dominante degli uomini fonda la sua egemonia sulla classe dominata delle donne. È così anche Giulio vuole perpetuare il suo potere maschilista su Marcella, attraverso il benessere derivante dall’attività di famiglia “così tu non avrai bisogno di lavorare… perché te lo dico io…perché tu sei mia”. Insomma, ancora una volta il modello “maschile” dominante ne uscirebbe pur sempre vittorioso, dopotutto. In effetti, non sembrano esserci per Delia molte opzioni.
Ecco, qui personalmente avrei calcato la mano sul concetto quasi Weberiano che le “strutture sociali” non sono necessariamente un destino, ma possono cambiare spesso come “conseguenza non prevista (“in-aspettata”, cioè che delude le aspettative culturali e sociali correnti) dell'azione sociale (del singolo e/o di un gruppo). E qual è, insisto, l’«azione sociale inaspettata» del “soggetto” Delia? Al di là dei sociologismi e delle sociologie manierate, qual è l’azione che ha un effetto dirompente (di cambiamento) non soltanto sui processi sociali di medio-lungo periodo, ma che può svilupparsi e acquistare significato anche per l’individuo che la compie nel qui ed ora dell’immediato presente? Il voto alle donne o la bomba al negozio della famiglia di “Giulio?” Il voto alle urne che le è stato concesso è sicuramente importante. Ok, ma può bastare? E come incide concretamente il voto sul menage di Delia? Davvero, allora, l’unica speranza nel presente è l’intimidazione mafiosa? Oppure è necessario che il cambiamento inizi all’interno della nicchia familiare per poter essere decisivo? E allora, qual è l’azione efficace “imprevista” qui? Quella di lasciare la famiglia per l’antico spasimante? O quella di arrischiarsela, facendosi valere dentro quest’ultima a prezzo della propria vita, eventualmente? Sfortunata la società che ha bisogno di eroi. E si può chiedere alle Delia di turno di fare l’eroina? (un altro di quei vocaboli che declinato al femminile rischia di acquistare un’accezione negativa).
In sostanza, l’azione dell’umile e isolata Delia che con orgoglio e speranza va a votare finalmente e l’azione della Delia che “mette le bombe” stonano non poco. 
Delia da buon personaggio della commedia all’italiana diventa allora, nella migliore delle ipotesi, espressione inconsapevole contemporaneamente della potenza devastatrice e del potere creativo dell'azione sociale. In questa antinomia tra il conformismo individuale ad un modello violento (il maschilismo e la logica mafiosa dell’azione ai danni del negozio) e di creatività trasgressiva dello stesso modello (attraverso l’azione individuale-collettiva del voto) sembra consumarsi il senso dell’azione sociale dell’individuo e di una collettività intera. E qui viene pericolosamente da ridere (una risata isterica) e piangere insieme ancora una volta. Ridiamo e inor-ridiamo per il candore o la sprovvedutezza della protagonista. Ridiamo e inorridiamo per la sua ingenua spietatezza. Ridiamo e inor-ridiamo per la sua “coatta (inevitabile?) docilità”. Ridiamo e inor-ridiamo di certa collettività che dà per scontate certe aberrazioni. Ma rimango fiducioso che anche in assenza di un'Istituzione che favorisca il riconoscimento reciproco, non è un destino che i dominati/e donne o uomini che siano, debbano per forza ricorrere alle bombe per ottenere riconoscimento dai dominatori di turno. E' indubbio che sussiste comunque una contraddizione individuale e collettiva che bisognerà pur sanare prima o poi.

PS; Andiamo a votare sempre e comunque. Fino a quando ne avremmo la possibilità, almeno.

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gustibus martedì 19 dicembre 2023
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Lei non ha fatto una recensione cinematografica..ma una tesi molto politica e se me lo concede di parte!Un film si dice mi piace o non mi piace..non che il b,co/nero(sul quale a rimarcato molto)..sia un attenuante per dare un giudizio.4milioni 500mila persone che l''hanno visto(oggi e''tornato secondo!)non credo erano tutti di sinistra o destra...democrazia cinematografica si chiama!

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