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La storia del sgt John Kinley che torna in una zona di guerra rischiando la vita e l’amore della propria famiglia per salvare l’interprete afgano Ahmed che in precedenza gli aveva a sua volta salvato la vita, è talmente bella che mi spiace quasi dover rilevare certe pecche del film. Questo è uno di quei topoi cinematografici che ci fa sempre piacere vedere riconfermati perché soddisfa un nostro bisogno archetipico oltremodo irrinunciabile quasi di giustizia e di bontà. Il protagonista si rivela un vero “Man of Honor” che con i principi non vuole scendere a compromessi. Mi chiedo cosa ne sarebbe stato di questo film se il regista avesse rinunciato a certo marketing di stampo hollywoodiano. A tratti anche il protagonista sembra un tantino stereotipato nell’interpretazione. Peccato!
Tuttavia, Guy Ritchie abbandonati gli orpelli registici alla "Sherlock Holmes" mette il suo talento, questa volta senza sensazionalismi, al servizio di una storia che, per quanto inverosimile a tratti, dipinge dignitosamente il “complesso di colpa del sopravvissuto”. “Sono un uomo che non può più riposare”, dice John ad un certo punto. L’essere sopravvissuto risulta per lui una “maledizione”. Egli si sente un privilegiato a spese di Ahmed che effettivamente da tutta la dinamica ne esce il più danneggiato insieme alla propria famiglia.
È ben descritto il sergente John che crede di non aver fatto abbastanza per quello che considera un suo amico a tutti gli effetti ormai. John si sente un incapace ed è convinto di non aver fatto abbastanza per ricambiare il sacrificio dell’altro. La sua diventa una fortuna immeritata ai propri occhi.
Si potrebbe dire che è una fortuna per John che provi un “senso di colpa irrimediabile” perché è proprio grazie a questo che egli troverà la forza e la motivazione per tentare di ristabilire quell’equilibrio che sente di aver perso dentro e fuori il proprio mondo. Il senso di colpa ha di buono che può essere riparato. E allora invece di crogiolarsi nella colpa rinunciando ai piaceri della vita e sprofondando nella depressione più nera, fa l’unica cosa che può salvargli la vita una seconda volta e cioè salvare l’amico afgano anche se questo potrebbe porre fine alla propria vita. Ma è l’unico modo per trovare pace..
Interessante appunto che il protagonista “agisce” cioè rinuncia al vantaggio secondario che deriva dal sentirsi in colpa sebbene sia proprio il senso di colpa che gli permette, quantomeno all’inizio, in qualche modo di rimanere vicino all’amico afgano.
Se avesse approfondito questo aspetto rinunciando al patetico e propagandistico “arrivano i nostri” alla fine forse ne sarebbe scaturito un piccolo capolavoro del genere. Il conflitto in Afganistan doveva essere soltanto un pretesto per parlare ancora una volta di quanto sia assurda la guerra. Se poi pensiamo a come è finita in Afganistan ci prende ancora di più il ,magone. Forse se sentissimo di più il “senso di colpa” allora forse ci sarebbero meno morti ammazzati in giro? Questa potrebbe essere una chiave di lettura dell'opera di Guy Ritchie. Ma ripeto ancora "Peccato!"
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