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Sempre a proposito di “Fuori campo” Valutazione 4 stelle su cinque

di Alessandro Spata


Feedback: 1173 | altri commenti e recensioni di Alessandro Spata
lunedì 31 ottobre 2022

Se è vero che qui l’artista sembra ritratto come un opportunista, un calcolatore che agisce sempre e soltanto in base al proprio tornaconto (per soddisfare la propria “libidine artistica”) è vero anche che i personaggi come ho sottolineato nel commento precedente sembrano agire in base ad una inderogabile necessità. A quest’ultima non sfugge ovviamente nemmeno Mother, musa affranta  la cui morte è “obbligata” in quanto serve a consentire che si compia il “disegno”. Quest’ultimo consisterebbe sia nel permettere la morte della musa (affinché possa “risorgere”) sia nel consentire che si perfezioni l’opera del poeta. Le due cose sono assolutamente collegate, due anelli della stessa catena cui entrambi sono avvinti, potremmo dire.
La musa e il poeta sono innamorati, profondamente legati come sottolinea più volte “Woman-Pfeiffer” e godono di un’incrollabile fiducia reciproca. In quanto figure ambedue obbligate, predestinate, quindi “irresponsabili”, non è facile distinguere tra vittima e carnefice. A primo acchito qui la vittima sembrerebbe la musa cui viene strappato il cuore dal poeta vorace creatore di liriche appassionate. Tuttavia, potremmo dire anche che il poeta è uno strumento (in)consapevole affinché si compia il destino della musa (la sua morte) da cui scaturisce la salvezza del poeta (Him è redento, è salvo soltanto quando crea).
In questo senso “Him” il dio-poeta diverrebbe il personaggio necessario al raggiungimento degli scopi di Mother. In pratica, il poeta una figura all'apparenza crudele, in realtà sacrifica la propria fama agli occhi degli spettatori attuali e futuri pur di seguire fino in fondo le disposizioni ricevute dalla sua musa che lo incoraggia a strapparle il cuore alla fine (Mother non si è stancata nemmeno in punto di morte di “dare”, né il poeta di ricevere perché “non è mai abbastanza”. dice Him a Mother che si scusa quasi di non essere (fare) “abbastanza”). Quindi, Mother spinge il poeta (ma non esattamente contro la sua volontà) verso l’atto estremo di privarla della vitaaffinché Him possa provare a tutti il suo genio indiscusso, perché possa dimostrare la sua deità (artistica).
In definitiva, entrambi sonocostretti ad agire da un’istanza ancora superiore. Him, il dio-minore si presenta in apparenza come carnefice, l’artista che tutto divora e tutti immola, figli compresi, al sacro fuoco dell’arte, lei musa angelicata emerge come vittima che però “conosce” già il suo destino sacrificale e agisce perché si compia. Dunque, abbiamo un carnefice e un sacrificio ambedue necessari? Non sembra qui risuonare vagamente l’assunto de “L'ultima tentazione di Cristo” di Martin Scorsese? Se Cristo fosse stato donna si sarebbe chiamato “Mother”. E Him non è esattamente un “traditore” (un opportunista) dopotutto. La "trasfigurazione" di Mother come donna e Dea predestinata sembra uno dei temi centrali del film, in effetti.
Questi personaggi senza nome (him, mother, man, woman) assomigliano un po’ tanto agli “ultracorpi” di Don Siegel o di Kaufman. Anche loro anonime categorie generali (gli “alieni”) provenienti da chissà quali profondità dello spazio capaci però di una ferocia senza pari.I personaggi che girano intorno a Mother non sembrano persone ma involucri ben confezionati, la cui voce risuona (un suono “fuori campo”) negli spazi-off della nostra mente. E le loro voci stridono nella nostra testa come una musica acusmatica una sola nota granulosa straziante che ci graffia il cervello fino a scavare un solco lacerante giù in profondità. La voce di dio? O quella di un demone forse (le voci lancinanti dentro la testa di Gesù-Dafoe che tenta di resistere alla “chiamata” divina nel film di Scorsese) o di un «alieno» (e ci risuona stranamente l’urlo agghiacciante di Donald Sutherland nel remake de "L'Invasione Degli Ultracorpi") o di una personalità schizofrenica. La voce dell’«alienazione mentale». La voce di Mother? (E riecheggia l'urlo disperato della scena finale nel film di Polanski "L'Inquilino Del Terzo Piano").
E quel “Plongée” della tromba delle scale (vista dall’alto) che inquadra Mother seduta su un gradino?Questo vortice di scale diventa ideale emblema di quella sorta di spirale turbinosa di avvenimenti funesti che tormenteranno la protagonista nel seguito della narrazione.
A primo acchito il plongée (mi) appare qui come un’ulteriore frattura nella (dis)continuità dell’istanza narrante. Da sola potrebbe rendere giustizia forse di tutte le interpretazioni e delle innumerevoli metafore potenzialmente contenute nel film. O forse potrebbe più semplicemente confonderci ancora di più le idee. L’impressione primaria non è certo quella di trovarsi ad “un’altezza” privilegiata che consenta una più chiara comprensione dell’ordito.
La sensazione è invece davvero quella dell’ennesima “cesura”. Forse il regista sta cercando di rendere lo spettatore di nuovo attivo, tenta di risvegliarlo dal tono onirico delle inquadrature precedenti che lo hanno introdotto in un “atmosfera da incubo”?Uno schiocco di dita salutare che ridesta lo spettatore dal sonno ipnotico in cui è caduto per volontà del carismatico regista? O forse è il regista stesso che si attiva per spezzare l’«identificazione cannibalica» dello spettatore con il film. Come a dire che c’è un limite alla sua immaginazione. L’idea del regista, la sua intenzione può essere stravolta fino ad un certo punto. È sempre lui l’artista ad avere l’ultima parola sull’opera d’arte personale, sul prodotto (in)finito del proprio ingegno.
Allora, scorgiamo dall’alto Mother riversa su un foglio su cui Him ha scritto la sua ultima poesia. A ben vedere qui in realtà il plongée non inquadra Mother in una posizione esattamente ieratica. Insomma, la posizione più “prosaica” dello stare seduta su un gradino della protagonista inquadrata dall’alto non sembra voler rimandare precisamente al trascendente. L’inquadratura dall’alto questa volta ci da l’idea dell’appiattimento, non dell’innalzamento. L’«occhio divino della macchina da presa» ci restituisce una protagonista “schiacciata” al “terreno”, inchiodata al peso della sua umanità.  Lo sguardo “dimesso” (dall’alto verso il basso) della cinepresa (metafora forse della luce divina che discende dal "cielo spalancato" direttamente su Mother! per illuminarne tutti i tormenti) all’interno di questo “mandala ipnotico” incastonato in una geometria ottogonale esprime piuttosto bene la sintesi di tutti i turbamenti della protagonista: un’idea di remissività, un senso di oppressione, di  sopportazione, di santa pazienza e di compatimento nutriti verso il poeta-bambino che sarà pure un “creatore” ma è pur sempre fragile, necessita di continue e amorevoli attenzioni e di convinto incoraggiamento. E poi la rassegnazione e la soggezione al contesto che è anche il destino (il proprio) che si accinge a compiere.
L’ordito della tromba delle scale con la sua forma a spirale, ma direi tutto l’assetto “grezzo” della casa richiama a tratti un edificio teatrale di epoca elisabettiana con la sua tipica costruzione molto semplice in legno o in pietra. E l’ampio lucernaio che si apre sul centro della spirale da quasi l’impressione della mancanza di un tetto proprio come nel teatro di epoca elisabettiana. Mentre le aperture e le porte che si susseguono lungo l’ anello di scale potrebbero ricordare loggioni e balconate interne alla costruzione stessa di un teatro. E in questa scenografia il pubblico non è semplice spettatore, ma ancora una volta partecipe della rappresentazione scenica. Il regista attraverso questa messinscena di architetture e di spazi “antichi” allude metaforicamente proprio a questa magia "evocativa" tipica degli ambienti teatrali. Lo spettatore sopperisce all’ «assenza» degli elementi del “campo in” creando a sua volta territori e universi (in-visibili) nel “fuori campo” della sua mente. Insomma, si fa appello alla ricettività dello spettatore nei confronti della parola recitata e delle immagini che scorrono dinnanzi ai suoi occhi a completamento dell’opera medesima. In più, lo spettatore deve farsi avvolgere dalla totalità di questa atmosfera allegorica, vi si deve immergere, come in un sacro lavacro, da cui riemergerà libero da qualsiasi pregiudizio se vuole apprezzarne tutta la misteriosa potenza suggestiva.
  Quella “seduta” di Mother è una posizione intermedia tra la posizione eretta e quella supina. Allora, l’espediente del plongée diventa qui forse pure una sorta di ponte nel dualismo corpo-anima.  Mother mantiene la sua prerogativa celestiale, eterea (come impone l’inquadratura dall’alto) quindi spirituale, ma conservando al contempo una fisicità profondamente umana: seduta e “dimessa” si commuove dinnanzi alla “creazione” del suo dio seppure un dio minore la cui unica prerogativa è quella di scrivere poesie tutto sommato. Chissà quali parole sublimi avrà scritto questo dio della poesia tanto da indurre Mother al pianto. Gli artisti ci “prosciugano” come è capitato a Mother, delle nostre emozioni e sentimenti, oppure ce li restituiscono in modi che non avremmo mai creduto. E può capitare che finiamo pure per intenerirci dinnanzi ai nostri guai e al cospetto di parole appropriate. L’artista è capace di mondare i nostri tormenti di tutto il dolore di cui si compongono. E mentre ci inducono una visione nuova della vita, ecco che la sofferenza si trasforma in “lacrime di gioia” grazie alla straordinaria “intensità” di certi versi, come accaduto a Mother seduta sulle scale, perfetta immagine del dolore sublimato.
Oppure, capita che il creatore si adoperi per far sentire davvero amata la sua musa e si conceda graziosamente a lei tra una poesia aulica e una riflessione solenne: il tempo di un amplesso impetuoso, riverbero di una passionalità più orientata all’astrazione che all’amore fisico, durante il quale madre finalmente e insperatamente concepisce. Mother ha ottenuto in cambio, non semplicemente un figlio, ma ottiene dall’artista la certezza di essere preziosa come e più di quel “gioiello inestimabile” che è il suo “cuore cristallizzato” o almeno così le  piace credere. L’artista crea pur sempre sotto molteplici aspetti e ricambia il dono della parola sublime in forma questa volta di “manufatto umano”. Niente di male ma con l’avvertenza che la creazione umana sia essa un bambino o una poesia non appartiene più al suo autore né alla madre-ispirazione. Come le parole scritte e pronunciate non ci appartengono più ma spettano a coloro che guardano, leggono, ascoltano pure a costo di farne strame, così non possediamo i nostri figli. Essi non ci appartengono più nel momento stesso in cui vengono a mondo. Abituarsi al distacco. Lasciarli andare. Questo è il più grande atto d’amore e insieme un doveroso atto di giustizia. Se ne facciano una ragione il creatore e Mother una volta per tutte.
Intendiamoci, esistono “dei” e archetipi seduti come ci rimanda l’iconografia delle diverse religioni. È solo che Mother ripresa dall’alto “accosciata” sui gradini di una scala mi rimanda più l’idea dell’ibridizzazione tra il divino e l’umano. O della simultaneità di sacro e profano, se volete.
Il corpo votato al martirio della protagonista (cominciamo già a sentire - l’odore delle sue calde ceneri -) si incastra, come la tessera di un perfetto mosaico, nelle decorazioni geometriche ottogonali del pavimento con i suoi riferimenti metafisici ed esoterici (ottagoni sono anche i motivi del piastrellato della stanza da bagno. Anche gli dei hanno le loro esigenze).
Dentro questo scenario labirintico la scelta dell’ottagono come motivo decorativo e non soltanto della pavimentazione non può essere casuale per uno come il regista con la fissa per la metafisica.La forma dell’ottagono è onnipresente e ritorna in vari ambienti e in diversi oggetti (divertitevi a scovare l’ottagono) persino il “buco tappato” nel muro della cantina rivela una vaga forma ottogonale, anche quella delimita un passaggio verso un altro ambiente (o un’altra dimensione che Mother si appresta a raggiungere?). Diverse stanze hanno forma ottogonale. Il grande lucernario della tromba delle scale è come lo sguardo di dio che veglia su di loro e incombe pure forse. Tutti questi ottagoni sembrano sparsi per la casa quasi a volerla avvolgere in una cintura scaramantica per proteggerla dagli influssi malefici dell’esterno. Ma con scarso successo visto che la casa non resisterà agli attacchi degli invasori. O forse la loro funzione è di rassicurarci che tutto risorgerà alla fine, che alla distruzione seguirà una nuova costruzione e così per sempre. Pure la pianta della casa sembra richiamare una forma ottogonale seppure in realtà a guardare bene la ripresa dall’alto dell’edificio sembra di scorgere più una forma ettagonale.
Questa casa incastonata in un cerchio delimitato da una selva di alberi riposta proprio al centro come si conviene al “fulcro del mondo”.E il poeta che rimprovera Mother di “essere la casa” quasi volesse fargliene una colpa, dimenticando che è grazie alla casa che l’artista, come ogni essere umano, trova il suo posto nel mondo. Ed è la casa che conferisce una connotazione umana alla divinità. La casa come un sano bagno di umiltà forse. Forse è vero quella casa con le finestre quasi sempre chiuse ricorda vagamente una madre in cui l’atto emozionale e comunicativo è bloccato in entrata e in uscita e dove sentimenti ed emozioni ristagnano. Questa è la casa di una “Mother Terrifica” nel senso di colei che “atterrisce” che incute terrore (un sacro rispetto) ma che al contempo denota il suo profondo attaccamento al “terreno”, ancora una volta.
Ad ulteriore testimonianza della forma ibrida umana-divina di Mother l’ottagono torna ancora buono  in quanto esso stesso è un ibrido: il simbolo dell’incrocio della manifestazione divina del cerchio e quella materiale o più umana del quadrato. O simbolo della trasformazione del divino in umano attraverso il filtro dell’ars poetica. Dio è soltanto un essere umano particolarmente ispirato? L'interesse per il complesso schema geometrico-matematico dell’ottagono e per i suoi compositi significati teologici, vogliono richiamare verosimilmente il simbolo della transizione da morte a vita e viceversa o meglio della rigenerazione (ancora un riferimento alla morte e alla rinascita di Cristo?).  Il percorso dell’ispirazione che rinasce dalle proprie stesse ceneri. Il destino di Mother, in definitiva.
Il regista ha disseminato di indizi, per chi saprà coglierli, per chi ha un animo da investigatore il “campo in” per anticiparci l’inevitabile dipartita di Mother, forse.
Mother si chiede continuamente “perché?”. Ma è vano alla fine ricercare disperatamente un senso a quello che ci accade (una musa nietzchiana?).
Mother che guarda in faccia con un misto di indifferenza e disprezzo i suoi ospiti sgraditi soprattutto quando si sente rifiutata da Him o perché non comprende cosa sta accadendo. Mother impaurita che esige spiegazioni da Him, finisce per incarnare in sé tutte le ansie e le perplessità e persino la confusione tipiche dello spettatore medio che si sente “rifiutato” a sua volta, esasperato di fronte alla macchinosità della trama del film.

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