Swiss Army Man - Un amico multiuso

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Un film di Dan Kwan, Daniel Scheinert. Con Mary Elizabeth Winstead, Daniel Radcliffe, Paul Dano, Timothy Eulich, Marika Casteel.
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Titolo originale Swiss Army Man. Avventura, durata 95 min. - USA 2016.
   
   
   

I "Macchiaioli" del cinema moderno Valutazione 3 stelle su cinque

di Alessandro Spata


Feedback: 1173 | altri commenti e recensioni di Alessandro Spata
giovedì 22 dicembre 2022

Attenzione Contiene Spoiler!!!
- Metti una sera a cena -  “Flatulenza, morte, identità e masturbazione” e non necessariamente in quest’ordine. Aggiungi una spruzzata di complesso edipico mai elaborato con contorno Rousseauniano di mito del “Buon selvaggio” ed ecco servito “SWISS ARMY MAN”.
Una multiforme e bizzarra miscelazione di generi diversi (comico, horror, psicologico, metaforico, demenziale, avventuroso) e di argomenti altrettanto disparati fanno di questo film a buon diritto un esempio fulgido di cinema “postmoderno” o che sfugge comunque a qualunque casellario cinematografico, eventualmente. Se poi a fare da “collante” a questo coacervo di generi e tematiche è la scoreggia allora capite bene che i dubbi sorgono spontanei.
È consigliata una visione di sbieco del film: disporsi in senso obliquoo anche meglio in posizione supina come il cadavere Manny. Allora, più che spiegato il film andrebbe “sbiecato” cioè analizzato-guardato per vie traverse, sotto un profilo originale.
Di sicuro, questa con tutta evidenza non èun’opera di pura evasione (e nonostante l’onnipresenza delle scoregge) così come la foresta di Hank non è il nulla di un mondo alieno come la giungla centroamericana di “Predator”, né tantomeno la foresta tropicale simil preistorica di “Jurassic park”, né l’«inferno perduto» di Cast away, ma il mondo deformato della sua percezione, un ambiente “deviato” in cui evade dopo essere fuggito da casa, per non dover scontare i suoi mali nella vita reale.
L’opera, abbiamo sottolineato, è composita, una sorta di “Hellzapopping” non sense con un sottofondo inesauribile di angoscia e i cui snodi grotteschi sono comunque molto stimolanti e al contempo incombono sullo spettatore con tutta la furia della inderogabilità e perentorietà delle questioni morali che esigono sempre nuove analisi e nuove definizioni.
Potrebbe sembrare un paradosso e di fatto lo è (come tutto il film, del resto) che in questo florilegio di forme cinematografiche rigenerate (qualcuno direbbe “degenerate”),  interpretate e reinterpretate con “spensieratezza”, la flatulenza con quella sua prerogativa di rendere tutto più “umanamente ridicolo” non ridicolizzi affatto (o almeno non completamente) i temi serissimi citati, ma abbia la pretesa persino di renderli più “accessibili” cioè maggiormente fruibili dal pubblico.
Il “flatus” quale funzione svolgerebbe qui, dunque? C’è un personaggio alienato e reietto (Hank) e uno innocente e incontaminato (Manny), ma mai davvero squallidi (come quelli di cinico tv) sullo sfondo di una natura selvaggia (in apparenza) e non esattamente abbandonata. Il grottesco e il surreale non sono al servizio di un nichilismo estremo. Al contrario l’amore per la vita “a prescindere”, sebbene risuoni un tantino retorico, sembra essere proposto come solo antidoto buono a contrastare certi veleni collettivi. Sembrano più decadenti forse i due cineasti per il senso di angoscia esistenziale irrimediabile che esprimono quando mettono in guardia dal rischio che il “rifugio nel delirio o le manette”possano trasformarsi negli unici rimedi sociali alla sofferenza personale. E senza dimenticare che la flatulenza nauseabonda rivela forse tutta la nausea che i Daniels nutrono verso la società, che impone regole ed etichette ipocrite, che obbliga - le persone a nascondersi e a nascondere i propri pensieri e desideri -. A tal proposito si potrebbe interpretare il film come una “pasquinata” provocatoria in stile dadaista: Il sedere nudo di Manny alla stregua del sedere dei registi esibito al finestrino dello schermo cinematografico in segno di dispregio, forse, verso un pubblico, ritenuto  superficiale e ignorante e bacchettone campione statisticamente significativo della solita borghesia conformista e perbenista.
È un’«arte cinematografica trasgressiva» quella dei Daniels, dunque? Della “Merda d’artista” ci ricordiamo ancora. Delle scoregge di questo film che cosa resterà? O è rimasto? C’è da chiedersi se la scoreggia nell’era di internet e dei social possa ancora scandalizzare le menti perbeniste dei borghesi. Oggi - ’nu pernacchio - in stile Eduardo può ancora scatenare rivoluzioni?
Io definirei quest’opera uno “Spatter movie” (O - Muddy movie -). “Schizzi” di cinema alquanto disordinato, forse, ma mai sciatto. Un cinema sempre “sospeso” che assume il colore torbido della fosca tinta marrone, che non si alza mai al di sopra dell’ombelico, ma che nemmeno si riduce (e sta qui forse la magia o il miracolo) ai bassissimi livelli di certi cloni cinematografici della goliardia più sfrenata dove la paura del futuro si esorcizza con la sveltina liberatoria o con i fumi dell’ennesima canna. Direi che Hank tra il John “Bluto” Blutarsky di “Hanimal House” e il J.J. ‘Gross-Out’ Gumbroski di “King Frat” si pone nelle immediate vicinanze del primo con tutta evidenza, ma con un maggior grado di tormento esistenziale al suo interno, più straziato e introspettivo l’Hank dei Daniels. E tuttavia Swiss Army nonostante la sua carica eversiva, risulta paradossalmente più politicamente corretto del film di John Landis, oserei dire, alla fine. Ma tutto il film è un paradosso.
I Daniels mi verrebbe da definirli come i “Macchiaioli” del cinema moderno nel senso che il film può essere considerato alla stregua di una composizione di “macchie di generi cinematografici e insieme di contenuti” molto distinti, accostati (impropriamente, a tratti) gli uni agli altri.E tuttavia, è proprio forse l'uso di effetti stilistici cinematografici contrastanti a conferire il giusto rilievo alle varie argomentazioni trattate. E non sarà la flatulenza un espediente che contribuisce adesaltare questi contrasti di stili e argomentazioni composite?
È un cinema “su-realista” che non disdegna l’impegno politico e civile persino: ma tutto sommato cosa c’è di più “verista” di una persona sorpresa a scoreggiare tra sé e sé? “L’umano scoreggione” è l’immagine di una perfetta scena domestica, uno spaccato nauseabondo insuperabile di vita quotidiana.
Questo contrasto “chiaroscurale” di generi e temi chiamato a (ri)animare una morale tediosa e conformista, fa da contraltare alle luci e alle ombre del protagonista Hank di cui possiamo cominciare ad apprezzare l’alternanza di gioie e tormenti, di desideri e frustrazioni lungo tutto il corso del film.
Il tema dell’omosessualità traspare con tutta evidenza tra le pieghe del film. E sembra che i due autori “abbiano giocato a Gay bubu-settete…Lasciando una scia di briciole di gaytudine” lungo tutto il corso del film. Gli autori qui affrontano in maniera non proprio delicata a tratti (faccio fatica a tenere insieme il tema dell’identità e della crescita personale con il desiderio di scoreggiare in pubblico) il tema dell’identità sessuale incerta di Hank raccontata attraverso sfumature, metafore, tracce e rimandi per non dire veri e propri stereotipi freudiani.
 Tuttavia, i due registi non volevano girare esattamente un film sull’omosessualità tout court. Il tema in questione non è l’unico e forse nemmeno il più importante.
Ciò che qui di sicuro è in discussione è invece la libertà di poter essere semplicemente ciò che si è e senza dover subire lo stigma della famiglia, del gruppo sociale di appartenenza, della comunità tutta.
Una condizione di non-morte quella di Manny. E una condizione di non-vita quella di Hank.Sembra profilarsi una“zona limite” in cui ancora vita e morte sembrano alternarsi senza soluzione di continuità. La non-vita o la non-morte se vi pare è quello stato di confine in cui si annuncia il dolore irrinunciabile  della - “coazione” a ripetere la vita così com’è - per quanto squallida essa risulti.
Comunque sia, quella di entrambi i protagonisti è una condizione di  “diversità” sono anomali sia nel loro essere morti che nel loro essere vivi. Sono “altri” rispetto alla norma. Non esattamente “devianti” (sempre che non si voglia considerare aberrante un morto che parla, ma ci muoviamo sempre nel campo del non-sense, dopotutto) ma che ci rimandano un immagine dell’identità e del concetto stesso di vita e di morte persino pluriversali.
Ciò significa pensare ad esempio che l’identità possa essere caleidoscopica, cioè plurima, senza gradazioni di superiorità e inferiorità. Guardare all’identità come ad una sorta di “arcipelago di equivalenze” in cui l’alterità non è considerata una devianza, ma senza nemmeno rinunciare al proprio punto di osservazione e alle peculiarità di ciascuna posizione di partenza. Occorre che il nostro approccio all’identità sia “decolonializzato”. L’immagine pluriversale della morte fa riferimento all’idea che ogni corpo che va incontro a morte cambia il senso, ogni volta, della “morte in sé”: Cambiando di continuo pelle e corpo la morte non è mai “una volta per tutte” e ciò rende possibile il rinnovarsi quotidiano del suo riflesso sui viventi in forme sempre nuove. Il corpo del singolo sottrae alla morte il suo carattere di universalità trascendentale o ontologica per restituirle la qualità di evento singolare sempre unico e sbalorditivo. Un invito a non assuefarsi alle tante notizie di morte che i media ci ripropongono quotidianamente, ad esempio. Una sollecitazione  a non rassegnarsi alla realtà così com’è per conservare il valore dell’indignazione nei momenti in cui l'indifferenza rischia di prevalere. Visti in questi termini i protagonisti del film introducono un punto di vista davvero rivoluzionario.
Anche poi la trovata del cadavere-Manny che deve reimparare a vivere e Hank che prova a insegnargli tutto daccapo riprogrammandolo in qualche modo dà l’idea di un pregiudizio al contrario: che - tutti nasciamo come tabulae rasae, vuoti, pronti ad essere forgiatidall’ambiente esterno-che fa da contraltare a quell’altro pregiudizio che ci vuole invece già - programmati (geneticamente) per determinati gusti, desideri ecomportamenti-. Anche qui si ripropone dall’altro lato a ben pensarci il mito del Buon selvaggio cioè laconvinzione che l'uomo in origine fosse un "animale" buono e pacifico e senza regolee che solo successivamente, corrotto dalla società e dal progresso, diventasse malvagio. Quindi in qualche modo si vuole rimarcare che il “rifiuto” di certo orientamento che non sia rigorosamente eterosessuale ha una radice esclusivamente culturale e politica e niente avrebbe a che vedere con la “natura” che al contrario prevede un sistema piuttosto articolato in materia.
Se è vero che le scoregge del morto Manny non strappano risate irresistibili, è altrettanto vero che ci si ferma ad un sorriso pietistico e imbarazzato verso Hank che fa prove di scorregge in autonomia nel bosco e che ha dovuto rifugiarsi nel sintomo del delirio per sopravvivere ad una realtà che lo rifiuta. Hank che scorreggia suscita un misto di commiserazione e sdegno: possibile che tutti i suoi guai nascano tra l’altro anche da questo desiderio frustrato di scorreggiare in pubblico? Ci rifiutiamo di pensare che il dolore possa essere davvero così poco dignitoso. In sostanza, si instaura da un lato un meccanismo di vicinanza che ci attrae verso Hank: siamo compartecipi delle sue sofferenze, dei suoi conflitti interiori devastanti; dall’altro un meccanismo di  lontananza ci fa arretrare dal protagonista: un’identificazione totale risulta irritante e sostanzialmente impossibile per l’apparente irragionevolezza “raccapricciante” del personaggio, tutto preso dal suo desiderio incomprensibile di “scurrilità”.
O forse simili sentimenti di moderata “riprovazione” sono soltanto una sorta di proiezione del nostro altrettanto moderato (insufficiente, finanche) senso di colpa dinnanzi alla messa a nudo della nostra posizione di “detentori di pregiudizi” che in quanto tali fanno di noi i responsabili, se non altro simbolicamente, della sofferenza di tante persone? Ciò che non si sopporta in certe immagini di Hank non è tanto il suo bisogno infantile e patetico di “dare fiato al culo” o di masturbarsi allegramente, ma più verosimilmente è questo fare affiorare alle nostre coscienze il sadismo sociale di cui siamo primi promotori anche soltanto indirettamente con la nostra indifferenza verso certe ingiustizie di questo mondo, forse. Partecipi come siamo tante volte della proliferazione dei mali di una realtà spesso crudele che sembra non cambiare mai.
Insomma, qui ci capita di prendere drammaticamente sul serio, seppure increduli, tutto ciò che vediamo, puzzette comprese. Tuttavia il mostrare il lato sostanzialmente “fumettistico” di una realtà qualche riflessione comunque la smuove. L’importante è che se ne parli. La rigorosità scientifica e le questioni morali li lasciamo per dopo.  
 Sfido chiunque a non vedere nelle scorregge che trasformano il cadavere-Manny in un aliscafo a reazione o nell’uso multiplo e molto creativo che Hank fa di Manny un qualche aggancio all’amabile stramberia dei “Looney Tunes”. In particolare mi è venuto di associare Hank a Willy il Coyote per la creatività e la tenacia che mette nel tentativo di “acciuffare” ancora la vita che gli sta sfuggendo anche se poi finisce sempre per mettersi in situazioni penose o pericolose. E quando Manny nella scena finale parte a razzo sull’oceano con l’ultima e la più lunga delle sue scorregge tonanti ti immagini che parta immediatamente la sigla finale delle “♫Merrie Melodies♫ “ di Raymond Scott. E poi quelle fantasiose per non dire allucinate riproduzioni del mondo reale (molto bella l’imitazione dell’autobus) a metà tra il preistorico in stile Flinstones e il gusto un po’ retrò di certi “meccanismi” cinematografici burtoniani. Le sue creazioni non sono semplicemente “paccottiglia psicotica”. Invece, non sono prive di una qual certa valenza “artistica”. Hank non è di certo il primo ad utilizzare spazzatura o escrementi vari per fare “arte”, dopotutto se per “arte” ci riferiamo anche ad una manifestazione “liberatoria” dell’«inconscio rimosso» di Hank, forse.
Un umorismo inquieto e malinconico, si dipana in questa trama complessa che si può interpretare anche come un percorso di formazione. Ammesso che “Un giorno questo dolore ti sia utile” Hank. Il personaggio dei Daniels sembra unmoderno Holden Caulfiled o il suo epigono non meno tormentato di James Sveck di Peter Cameron. A Hank è andata peggio però. Hank ha dovuto sperimentare con la malattia mentale conclamata “cosa significhi diventare grandi in un mondo di adulti che in larga parte l’ha escluso”. Ecco dove la solitudine, l’indifferenza, l’ipocrisia e la difficoltà di affrontare il mondo possono condurre gli individui a volte. Ma si può criticarlo per quel suo desiderio di scorreggiare in pubblico o di masturbarsi? Con un cadavere per amico l’unico su cui fare affidamento. Una personalità complessa che gli è costata l’ epiteto di “svitato” al punto  da essere obbligato a cambiare scuola, un padre dal super-io sadico e “una madre morta che gli evoca la masturbazione” (o viceversa) attività quest’ultima che per tale motivo evita come la peste.
Anche Hank forse come Holden o James desidera soltanto essere accettato per quello che è (o vorrebbe essere). Forse anche lui è soltanto di tempo che ha bisogno prima di fare una scelta definitiva sul proprio orientamento sessuale. Anche Hank sembra voler dissimulare la propria difficoltà psicologica di crescere dietro una sorta di “spocchia morale” che agisce tante volte come una sorta di meccanismo di difesa: Il distacco, un misto di paura, umiliazione, vergogna e disprezzo verso il mondo che lo rifiuta trova la sua compensazione nellacelebrazione di una verginità primordiale, che si esprime qui nel mito del buon selvaggio impersonato in particolar modo da Manny zombie intellettuale che (si)fa domande sul senso della vita e che Hank prova a riplasmare come fosse una tabula rasa.
In questa “isola deserta” solita metafora della “terra di nessuno”, “non-luogo comune” della mente dove si appartano tutti coloro che sono stufi  di schemi e ragionamenti precostituiti, si ritrovano due corpiapparentemente reduci da un naufragio. Due corpi alla deriva e due identità in “decomposizione” o che si stanno forse lentamente “liberando” o “ritrovando?”. Si confrontano da un lato un cadavere Manny “piccolo uomo” o “accenno di uomo” ormai in putrefazione. Manny strano tipo di zombie-anonimo che non si ciba di frattaglie umane, ma che ha fame di virtute e conoscenza (il mito di frankestein torna sempre buono). “Uno straniero senza nome” e senza dimora “qualcosa di meno” di un essere vivente (un “manny”, un abbozzo di uomo) non fosse altro perché dovrebbe essere morto da un pezzo e “qualcosa di più” di un morto stecchito, venuto chissà da dove e per chissà quale motivo e dall’altro Hank uomo vivo, ma non troppo, tanto morto dentro anche lui, anche lui senza identità o comunque alla disperata ricerca della sua affermazione.
Sui morti viventi le metafore si sprecano, ma risulta comunque degno di nota qui il concetto, seppure molto abusato, della morte come monito, come insegnamento per i vivi. Il morto e il suo cadavere sono qui intesi come supporto della difficile trasformazione e rinascita del corpo e dell’identità di un altro-vivente. Da un lato il cadavere impregnato di psichismo novello “Frankenstein Junior” fin troppo umano pure nella ridicolaggine il cui effetto però può essere ugualmente sconvolgente e dall’altro Hank - quasi-vivo - si potrebbero dire entrambi sospesi in una dimensione alterata-mutata dello stato organico.
Oppure - la vita e la morte sono nient’altro che uno stato mentale? – potrebbe dire “Benjamin Rand” l’amico tycoon di “Chauncey Gardiner”.
Due livelli di “esistenza”, due modalità di “essere-nel-mondo” speculari e simmetrici si accompagnanocon molta fatica e diversi limiti, pur coscienti forse che alla fine dovrà restarne uno soltanto.
Dunque, Manny e Hank vere e proprie dimensioni parallele destinate a rimanere pur sempre separate nello spazio-tempo come ci ricorda l’ultima flatulente scena del film: Hank è arrestato e Manny si allontana velocemente sull’acqua con un lungo peto del suo “culo a motore” abbandonando per sempre le rovine di questa terra. La vita e la morte devono pur sempre esistere su due piani differenti. L’ordine è di nuovo ristabilito. A questo punto, come farebbe la classica voce fuori campo di una “tv cinica” chiederei a Manny un momento prima che accenda il sedere per solcare le acque dell’oceano: «Che cosa abbiamo visto, esattamente qui?» Manny-Paviglianiti: «Boh, non ne ho idea!» e giù con l’ultima fragorosa fantozziana “ventilatio intestinalis putrex” con Manny che si allontana spedito  all’orizzonte. Ma niente paura! Non state lì a farvi tutte queste seghe (mentali) - Questo è sempre e soltanto un film -, dopotutto, ci direbbe l’ennesima vocina questa volta “in campo”.

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marcus domenica 25 dicembre 2022
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Concordo in buona sostanza con quanto scritto nel commento. Anche il richiamo ai personaggi di cinico tv ci può stare ma sono anche molto diversi. Mi piaceva questo tentativo di provare a spiegare il senso del peto in questo contesto che in effetti lascia di stucco. Però è vero le "scoregge" non banalizzano i contenuti del film , ma forse si giustificano con l''intenzione degli autori di obbligarci a vedere il film sotto un''ottica particolare. Però è durissima...

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