Dogman

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Un film di Luc Besson. Con Caleb Landry Jones, Jojo T. Gibbs, Christopher Denham, Grace Palma.
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Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 113 min. - Francia, USA 2023. - Lucky Red uscita giovedì 12 ottobre 2023. MYMONETRO Dogman * * * - - valutazione media: 3,07 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Trauma vendetta e vergogna Valutazione 2 stelle su cinque

di Alessandro Spata


Feedback: 1173 | altri commenti e recensioni di Alessandro Spata
martedì 17 ottobre 2023

Attenzione, contiene spoiler!
I due motivi (gli unici) per cui vale la pena di vedere questo film? Caleb Landry Jones e i cani. E non esattamente in quest’ordine. Édith Piaf imitata da CLJ è davvero “mostruosa”. “Da paura”, tanto è raccapricciante il protagonista nel travestimento e nella postura. E un misto di repulsione e commozione ti prende fatalmente.Auguriamo a Caleb di non rimanere imbrigliato in questi ruoli di sociopatico dal cuore tenero, visto che rischia di possedere un evidente physique du rôle che potrebbe inchiodarlo a questo genere di film. In veste di “Robin Hood psicopatico en travesti” ci facciamo bastare il Batman di Tim Burton (per quanto mi concerne, almeno).
Per il resto l’amara sensazione di un “déjà vu” spudorato mi prende per tutto il film. “Sfacciato remake” di tante opere del genere“revenge catartico” politicamente ed eticamente ancora sostenibile presso larghi strati di pubblico di variegata estrazione sociale e ideologica. Perché, nonostante gli schemi del genere siano triti e ritriti, la metamorfosi di “Doug-Bambi” nel consueto “travestito”, demone-angelo “Terminator(e)” truccato di tutto punto e con make-up in stile “clown assassino”, sembra essere una sorta di archetipo conservato nell’inconscio collettivo che in quanto tale conserva una potenza sconvolgente, ma pur sempre liberatoria, ancorché primordiale che siamo autorizzati ad agire, però, soltanto attraverso la visione di sapienti richiami cinefili (e “cinofili”, eventualmente) ben confezionati. In questi momenti di “sublimazione artistica” si verifica una momentanea chiusura o obnubilamento rapido della coscienza dello spettatore, come reazione di difesa a certe macroscopiche ingiustizie del mondo o della natura che tante volte si accaniscono sull’individuo o un intero gruppo sociale e a cui normalmente non sappiamo trovare una giustificazione. In condizioni “normali” tale stato di “in-coscienza” si compie periodicamente dinnanzi ad uno schermo cinematografico o casalingo dove vengono rappresentate certe brutture del mondo. In questa situazione si verifica una temporanea sospensione dei tradizionali parametri morali ed etici personali e collettivi e la coscienza o almeno quella porzione ancora integra rimasta sensibile alla cattiveria della società, trae conforto e speranza. E il senso di colpa finalmente si stempera in un bagno di sangue purificatore, seppure pur sempre figurato. Film come questi svolgono quasi una “funzione sociale” di valvola di sfogo dell’angoscia oltre che a fungere da meccanismo moderno di ritualizzazione dell’aggressività, quindi? Ok, ci pensiamo in altra sede. Ma non facciamolo sapere a Besson che poi si monta la testa e ti spiattella un altro film “catartico”.
Ma tornando al film in questione, le mie associazioni preferite comprendono oltre al Batman citato, il “Ragazzo selvaggio” di Truffaut, “GREYSTOKE” di Hugh Hudson e il già menzionato in altre sedi “Il silenzio degli innocenti” di Jonathan Demme.
E allora, “Come riesce una persona a sopravvivere e a gestire la propria sofferenza?”, si chiede Besson. Capita tante volte di essere cresciuto tra taluni primati del Camerun a allora non ti resta che diventare il “Signore delle scimmie”. E se vieni allevato da certi uccelli “maggiordomo” (di origine antartica eventualmente) ti può capitare di diventare l’«Imperatore dei pinguini» col complesso di Erode. Ma se hai una passione insana per i felini con l’aggiunta di qualche neanche tanto velata tendenza all’isteria, oltre che essere negata proprio costituzionalmente per le relazioni umane, ecco che il ruolo di “Dea dei gatti” e femme-fatale, seducente e sfuggente avviluppata dentro una tutina in simil latex nero fatta in casa, diventa il tuo inesorabile destino.
E Se Hannibal Lecter si trasformasse improvvisamente nello pseudo transessuale Jame Gumb e con tanto di trucco e parrucco alla Marilyn Monroe? – Ebbene sì… Buffalo Bill (“ma quant’è cattivo quel ragazzo”) c'est moi -, pronuncerebbe con un’immancabile effetto agnitivo lo psichiatra che “ama la sera degustare per cena il fegato di un vecchio amico con un bel piatto di fave e un buon Chianti”. Ma questo è un altro film.
E uno invece che è stato costretto a convivere, a forza di fucilate pure, con una muta di cani dalle svariate razze dentro ad una gabbia che cosa diventa se non un “Dio dei cani?”, - The God of dog(s) -.
 Doug insegna ai propri cani come sopravvivere al peggio. E attraverso di loro a sua volta sopravvive. C’è sempre bisogno di qualcun altro (umano, animale o pianta che sia) per stare al mondo. E i cani sono docili e teneri, imparano in fretta per amore del loro sfortunato Signore, ma sanno essere anche spietati all’occorrenza. Doug li ha (ri)creati, da bravo “dio” che si rispetti, a sua immagine e somiglianza.
E allora, uno psichiatra discretamente regredito potrebbe domandare: - Che cosa fa esattamente “Doug”? -. “Uccide i cattivi e deruba i ricchi". "No, questo è accidentale”. “Qual è la prima cosa che fa? Uccidendo e rapinando che bisogni soddisfa?"."Rabbia, bisogno di sentirsi socialmente accettato, frustrazione sessuale (o sentimentale) vendetta. “No anche questo è marginale”. “Egli desidera. E desidera liberarsi prima di tutto di un profondo vissuto di vergogna”. “La vendetta qui è al servizio del riscatto dalla vergogna. Il bisogno di restituire il torto subìto proiettando su generici cattivi l’ombra di chi materialmente gli aveva cagionato il male, è abbastanza scontato. In realtà, Doug pretende di fare qualcosa di più: vuole ribellarsi col sangue all’umiliazione della sottomissione, alla mortificazione dell’isolamento, alla privazione del rispetto di sé, all’ignominia dell’espropriazione della propria identità oltre che protestare per la perdita della propria integrità fisica (non proprio accidentale, tutto sommato, neanche questa). Prendersela con i cattivi, vendicare i torti subìti dai deboli lo fa sentire ancora una persona buona, una persona che ha un valore e nonostante tutto il peggio che l’esperienza ha preteso di inculcargli.
Non è certo un “revenge movie” tradizionale questo, non completamente, almeno. Ma propone tutte le caratteristiche classiche della tragedia con un tocco di metafisica in più alla portata di tutti: il protagonista ha vissuto l’orrore, ma conosce la compassione e forse è proprio l’orrore che ha subìto ad avergliela insegnata. Cioè, il “castigo” che indebitamente gli è stato inflitto non lo ha incattivito del tutto. Infatti, oggi è lui ad essere diventato un “flagello di Dio” e semina la morte e lo scompiglio tra i cattivi, ma risparmiando i buoni perché è ancora in grado di riconoscere la bontà e a suo modo la pratica pure.
Un po’ santo e un po’ diavolo come solo gli esseri umani sanno essere quando si crogiolano in tutta la loro ambiguità esistenziale, finisce per realizzare il “Bene”, ma praticando il male della violenza. Non esattamente originale, si dirà. Aridatece “Nikita”, please, che in quanto a “settarismo catartico” rimane insuperata nella filmografia di Besson e forse non solo (ma anche “Leon” non scherza in quanto a violenza “sublimata”).
L’identificazione dello spettatore nasce spontanea perché in ognuno di noi c'è il male e il bene, ed è così che non possiamo fare a meno di guardare con pietà al protagonista facendoci partecipi delle sue vicissitudini più che delle sue efferatezze (Joker, docet).
Questa  combinazione ontologica di luce e ombra sfocia a volte in una forma di “alienazione” che conserva un accenno di pietà, affettuosità, premura che il protagonista riversa (giocoforza) sugli animali e sui cani nello specifico che a differenza degli umani sono i soli ad essersi dimostrati affidabili, ma “che hanno un unico difetto: si fidano degli uomini”. La perdita di speranza è assoluta qui come la sua solitudine, del resto. Ma come si può biasimare uno che ha patito l’inferno per mano della propria famiglia, che prova a cercare lavoro, ma gli è negato in quanto disabile, che sente di amare una donna, ma non può essere ricambiato. Ce n’è abbastanza per rassegnarsi implodendo nella depressione più profonda o per trasformarsi in un serial killer, eventualmente. E allora guai a chi maltratta i suoi animali perché “la sua giustizia calerà con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno su coloro che si proveranno ad ammorbare e infine a distruggere i suoi fratelli”. 
 “Doug” come da copione ci è presentato come il risultato “mostruoso” di frustrazioni sessuali, infanzia e preadolescenza traumatiche ed è dotato di doppia o chissà quante altre personalità. E poi l’identità sessuale indefinita risultato forse proprio delle prepotenze e violenze patite? La psicologia tagliata con l’accetta ad uso e consumo di “spettatori consumatori e consumisti”.
“Doug” scopre per caso o riconosce definitivamente, forse, la sua indole “Drag” dopo essere stato rifiutato ripetutamente dal mondo del lavoro perché disabile? Di necessità fa virtù mettendo a frutto quanto del teatro e dell’arte di mascherarsi aveva imparato da Salma. A ben guardare c’è forse anche qui una critica appena accennata alla spietatezza del sistema economico attuale. Insomma, imputare le sue azioni al suo temperamento rivendicativo da “disadattato” reduce di un passato di sevizie, non può esaurire tutta la complessità del personaggio anche se tendiamo a giustificarlo per questo, alla fine. L’allusione vagamente allegorica alle storture di certa civilizzazione o capitalismo non può mancare, quindi, ma non può neanche bastare. Non vorremo mica addossare a Doug o alla sua famiglia la colpa esclusiva della sua sofferenza, dopotutto. Tuttavia, ciò che ha subito è talmente aberrante che non si fa alcuna fatica a convincersi che il suo sviluppo abbia preso “direzioni alternative” perché la cruda realtà ne ha inibito certe potenzialità, si potrebbe dire.
Doug sembra aver percorso una parabola al contrario. Si parte dall’assunto che tante volte lo stato civilizzato e quello selvaggio non si distinguono; si compenetrano e senza soluzione di continuità. La “beatitudine dello stato naturale” non si addice al protagonista che ben presto ha dovuto confrontarsi con tutta la “selvatichezza” della cosiddetta civiltà.
È sopravvissuto alla foresta metropolitana che in quanto a brutalità non ha nulla da invidiare a certa condizione primordiale di ferinità, ma il prezzo che ha dovuto pagare è stato altissimo in termini di mancata integrazione. Non che Doug non ci abbia provato ad integrarsi, tutto sommato, nell’illusione forse di redimersi per lasciarsi alle spalle quello “stato di cultura”, rivelatosi esiziale per lui. Ma ritornare ad un “ideale beato stato di natura” si può? Ritrovare l’«innocenza» (qui intesa come uno stato di benessere precedente al trauma) sarebbe piuttosto arduo per chiunque, forse, in un contesto culturale “schizofrenico” dove si pratica con assoluta nonchalance l’«omofagia», cioè “il cibarsi simbolicamente e impunemente  dei nostri simili” giocando con i loro sentimenti, facendoci beffa delle loro emozioni. Capita di divorare gli altri lasciando che si struggano tra dubbi atroci o infliggendo traumi che di fatto ne annullano l’esistenza.
Anche Doug è stato fagocitato dalla follia dei suoi simili: dalla famiglia, dalla società, da un amore mancato. Mangiato e poi vomitato come solo una “società bulimica” può essere capace. E anche lo spettatore, a pensarci bene, "cannibalizza" le disgrazie del protagonista per “sublimare il male che nutre dentro di sé”. Alla fine, Doug fa in modo di lasciare definitivamente questo spietato “stato di cultura” per non essere obbligato a perpetuarne le nefandezze. Il film, per così dire, si sospende, piuttosto che concludersi, sull’ultima frase disperata di Doug, urlata al cospetto di una croce: - I’m standing for you -. Che considerato il contesto mi sentirei di tradurre in due modi, ma in qualche modo associati: uno ortodosso “Sono qui per te” e uno dall’interpretazione più libera “Sono qui in piedi davanti a te”. Ambedue le traduzioni possono lasciare spazio a interpretazioni che vorrebbero richiamare il tono furente di chi si ribella ad una vita infame. E così Doug urla la sua protesta a Dio. E quasi volesse chiedere conto e ragione per quanto gli è successo, con tono di sfida sembra che pronunci: - Eccomi! Sono qui ancora in piedi (davanti a te). Chiunque tu sia. Sono qui “Per Dio”(“invocazione”, seppure perentoria). O forse - nonostante Dio? -. - Vedi cosa hai fatto al figlio tuo? -. Sembra più una via di mezzo tra il “rimprovero delirante” e la “preghiera” di uno giunto alla fine della vita che si sente obbligato a rivolgersi ad un’«Entità-Altra» nell’estremo tentativo di riuscire a trovare un senso al proprio dolore. Ma in realtà non si è mai rassegnato completamente al proprio male Doug. Tutta la sua vita è stata in fondo una “reazione perenne” all’abuso subìto. Nella sua reazione, seppure discutibile, è sempre stata insita la ricerca disperata di una giustificazione alla mala sorte che gli è capitata. E nella violenza ha trovato una risposta seppur effimera. La sua vita è stata una punizione ancora di più perché non l’ha capita (la vita e la punizione). Cosa avrebbe dovuto espiare alla fin fine?
Adesso però “Doug è pronto”, ma non certo per il perdono. Non sembra essere uno che è ormai in pace con se stesso e con gli altri. Non ha l’aria di uno che è riuscito a rimettersi in pari con l’esistenza. Dalle sofferenze della vita ne è uscito troppo malconcio. Uno che ha passato la vita a “mascherarsi”, adesso se ne va ostentando con “fierezza”, seppure claudicante, i propri tormenti, vestito con eleganza e debitamente sbarbato (anche nel dolore occorre essere dignitosi). I tormenti, l’unica cosa che gli è rimasta, se escludiamo i suoi amati cani onnipresenti. Alla fine “si muore sempre soli e con niente addosso”. Proprio come quando siamo venuti in vita. Doug alla nascita doveva essere pieno di aspettative. Doug muore molto arrabbiato in preda ai rimpianti e ai rimorsi. Emblema della triste parabola percorsa dai tanti sventurati sempre alla ricerca di “senso” (che poi saremmo tutti noi umani condannati come siamo a farci domande senza risposta). E “ci chiediamo” ancora “Perché (gli) è successo tutto questo?” Razionalmente si confermerebbe l’ipotesi che la vendetta è soltanto un pannicello caldo poggiato su quello “squarcio purulento” che si dimostra tante volte essere la vita e per molta gente. Comunque, non disperiamo. Chissà che Doug non trovi una risposta al suo “Grido” prima o poi, in qualche modo, in qualunque luogo si trovi.

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edmund giovedì 19 ottobre 2023
film poco originale
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Non condivido completamemnte le sue riflessioni sul film perchè temo che le sue interpretazioni per quanto degne di nota finiscano per nobilitare oltremodo un film che non lo merita affatto. Trovo che ci sia pochissimo di originale e pure trattato con i piedi e certe formule hanno pure stancato. Certo rimane l''interpretazione del protagonista che assomiglia però un pò troppo a certi joker del recente passato ma è anche vero che uscire dagli stereotipi è difficile anche per un bravo attore. Trovo più interessante il suo accenno all''archetipo che fa da sottofondo ai tanti film del genere revenge.
Posso aggiungere un mio personale "riferimento" che mi ha richiamato la visione del film (non per equipararli ma per rilevare tutta la miseria del film di Besson che ne esce a pezzi dal confronto) e cioè "Una donna promettente" di Emerald Fennell che ha il pregio se non altro di trattare il tema della vendetta nobilitandolo a suo modo e innestandolo in una realtà sociale brutale come quella dello stupro. [+]

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maramaldo giovedì 18 gennaio 2024
paola for president
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Sentimentalmente legato, l''idea non mi dispiace. Avrei pure pensato ai dicasteri da assegnare alle gemelline dalla mano lesta, si tratta pur di un avanzamento sociale.
Caro Alessandro Spata, mi rifugio sotto l''ombrello della tua spavalderia. Non so se andrai lontano, da un pezzo di tengo d''occhio e condivido (Dogman, Oppenheimer).
La metto subito sul cinefilo, un semplice quesito: passare da Monica Vitti ad Anna Magnani è un percorso in discesa o in salita?

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