Titolo originale | Ich war zuhause, aber |
Titolo internazionale | I Was at Home, But... |
Anno | 2019 |
Genere | Drammatico |
Produzione | Germania, Serbia |
Regia di | Angela Schanelec |
Attori | Franz Rogowski, Alan Williams, Devid Striesow, Lilith Stangenberg, Dane Komljen Maren Eggert, Nicolas Wackerbarth, Wolfgang Michael, Ursula Renecke, Ann-Kristin Reyels, Thorbjörn Björnsson, Esther Buss, Martin Clausen, Lucas Confurius, Marcel Kohler, Jelena Kuljic, Jakob Lassalle, Clara Möller, Ursula Renneke, Jirka Zett. |
MYmonetro | 2,92 su 2 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento sabato 16 febbraio 2019
Un ragazzo sparisce per una settimana e le persone intorno a lui cominciano a porsi domande esistenziali. Il film è stato premiato al Festival di Berlino, Al Box Office Usa I Was At Home, But ha incassato 6,1 mila dollari .
CONSIGLIATO SÌ
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Dopo essere scappato per una settimana, accampandosi nei boschi, il giovane Philip fa ritorno a casa. Ad attenderlo ci sono la sorellina e la madre Astrid, operatrice del settore artistico, ancora in lutto per la recente morte del marito. Il ritorno del ragazzo, anziché sciogliere l’angoscia, finisce per liberare una corrente di dolore e ansia troppo a lungo trattenuta.
“L’arte è l’incontro tra due elementi che si trasformano insieme”. A dirlo è Astrid, in un lungo monologo sul ruolo dell’arte nell’età contemporanea, declamato davanti ad un supermercato berlinese, con le buste della spesa allacciate alla bicicletta e l’interlocutore - artista anche lui - muto e in ascolto.
È la scena più parlata di un film che, per quasi due ore, cerca di fare esattamente questo: mettere insieme, senza curarsi della progressione narrativa, elementi diversi della “storia” cercando di comporre un senso più emotivo che razionale - un senso pienamente creativo. Ma l’esperimento, dichiarato come tale fin dai primi istanti del film, è riuscito a metà.
Funziona - nel restituire lo spaesamento successivo al lutto - la ricerca condotta da Schanelec sul suono, vero protagonista di un film composto da quadri statici da cui è bandita l’articolazione di qualsiasi movimento (del corpo o della voce): il frinire dei grilli, lo sferragliare dei treni, il traffico, le urla di Astrid che spezzano il silenzio, la lunga sequenza accompagnata dalle note di Let’s Dance di M.Ward. Funziona la performance di Maren Eggert, solida attrice la cui formazione teatrale concede al personaggio di Astrid una dolente credibilità scenica.
Ma la struttura circolare del film, aperto e chiuso nella natura (gli animali all’inizio, la foresta alla fine), finisce col circoscrivere un mosaico di quadri affastellati l’uno accanto all’altro senza che avvenga, appunto, alcuna “trasformazione” di senso. La struttura ellittica e a-logica del film funziona, così, solo se lo spettatore decide di volergli attribuire un senso: i bambini che recitano l’Amleto, l’asino che guarda in macchina, la lunga scena con il venditore di bicicletta, l’isteria che guida le azioni di Astrid, sono sequenze indipendenti l’una dall’altra e scomposte come pezzi di due puzzle mescolati fra loro. Un esperimento estremo e a tratti frustrante che richiede, anche al pubblico più raffinato, molta pazienza e un certo grado di bulimia cinefila.
Di quanto il sottoscritto provi a guerreggiare (con i pochi con cui ancora si può guerreggiare per un'idea di cinema) in difesa dell'opera della tedesca Angela Schanelec, lo sapete (vedi Film Tv n. 47/2020). Ramo Bresson della storia della settima arte (un ramo oggi privo di fiori, al di fuori di Kaurismäki e in parte di Dumont), bacino Berlin School (con Christian Petzold e Christoph Hochhäusler), [...] Vai alla recensione »