Un‘opera che non necessita di parole per trasmettere un messaggio che, nella sua palese cripticità, appare fin troppo evidente. L’umanità non è affatto una conseguenza del nascere, ma una difficile ed ardua conquista. La parabola esistenziale messa in scena dal Villeneuve si confronta con temi forse ben al di là del cinema attuale, quanto meno del genere fantascientifico. È evidente uno spasmodico tentativo di riscoprire le atmosfere dei tempi che furono, ma a ben vedere quel 1982 appare ormai piuttosto lontano. Il cinema è cambiato, noi spettatori siamo cambiati. Eppure non dispiace affatto il respiro ampiamente onirico impresso alla pellicola dal regista canadese, sempre sotto il vigile e attento controllo di Scott, il quale sembra davvero esser rimasto costretto dal suo ruolo di produttore esecutivo. Sul versante tecnico Roger Deakins compie un mezzo miracolo: la sua fotografia talmente evocativa imprime nella mente dello spettatore scenari climaticamente vivi e meravigliosamente distopici. D’altro canto da un artista come il Deakins, nominato più di dieci volte al massimo riconoscimento, non era lecito aspettarsi di meno. E se poi ad un simile genio se ne accompagna un’altro del calibro del Maestro Hans Zimmer, il gioco è fatto. Anche il comparto sonoro infatti rappresenta un vero e proprio miracolo: l’atmosfera del cult precedente rimane pressoché intatta, e (buona) parte del merito non può che attribuirsi ad un soundtrack lungamente ragionato. Dunque vittoria su tutti i fronti per l’ambizioso progetto del Villeneuve? Beh, non proprio. A ben vedere infatti Blade Runner 2049 presenta evidenti difetti che, visto il nome che porta, non può davvero concedersi. Innanzitutto non è affatto possibile ignorare il ritmo schizofrenico che talvolta il film assume, ritmo che offre il fianco a numerosi momenti di stanca, mascherati abilmente da velate riflessioni pseudo-filosofiche ed abbondanti riferimenti all’originale che tuttavia non riescono a stabilizzare il susseguirsi di scene ahimè tali da infrangere l’altrimenti godibilissimo andamento dell’opera. Infine la sfumatura forse più evidente in quello che altrimenti si presenterebbe davvero come un meraviglioso diamante: l’indecisione costante del Villeneuve, che nello spasmodico tentativo di espandere l’universo di quella che a conti fatti si imporrà presto come una saga cult del cinema contemporaneo, si lascia trasportare, ed incapace di porre un limite ai suoi sfrenati impulsi creativi, finisce coll’attingere in modo più che sfacciato da altre saghe e da altri mondi dell’immaginario collettivo fantascientifico. Tante, troppe volte dunque lo spettatore è colto, nell’estasi dei curatissimi fotogrammi che si susseguono, da una turpe sensazione di già visto. A conti fatti è forse il tempo il più grande nemico da abbattere per questo nuovo Blade Runner 2049: d’altro canto 35 anni non si lavano mica così, con un colpo di spugna. E le difficoltà incontrate dal Villeneuve nel riproporre al pubblico, un pubblico ripeto che non è più quello degli anni 80, un prodotto come Blade Runner, dal respiro quanto mai filosofico ed onirico, sono tristemente evidenti soprattutto sotto il versante dei biglietti venduti (ed in modo particolare in madre patria), complice forse anche una durata della pellicola, 152 minuti, che decisamente non si sposa con i gusti di una buona fetta del pubblico contemporaneo. Tuttavia i dati di vendita giammai hanno avvilito, ne mai dovrebbero, un giudizio imparziale su di una qualsiasi opera d’arte. Ed il cinema, lo si ricordi sempre, è prima di tutto arte, come d’altro canto più che efficacemente dimostra Blade Runner 2049. In conclusione, appare doveroso sottolineare la perfezione sul piano attoriale delle performance di Ryan Gosling (il novello protagonista agente K) e Jared Leto (il visionario Neander Wallace). Dal canto suo anche Harrison Ford c’è la mette davvero tutta nel rivestire con credibilità i panni dello storico protagonista Rick Deckard, ma forse è proprio lui, più di ogni altra componente del film, a subire l’ingrato e crudele giudizio del tempo.
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