Il regista basa il suo film su uno spunto narrativo geniale: l'ossessione verso il benessere del nostro secolo (e non solo).
di Claudia Catalli
"C'è una terribile oscurità qui". Come spesso accade, è la battuta di uno dei personaggi minori quella che meglio sa descrivere l'atmosfera di un film, in questo caso La cura dal benessere, nuova poliforme creatura di quel Gore Verbinski già regista di Pirati dei Caraibi e The Ring.
Stavolta firma un ibrido tra thriller e horror, basato su uno spunto narrativo geniale: l'ossessione verso il benessere del nostro secolo (e non solo). La fissazione per i corpi che il più delle volte finisce per oscurare la "mens sana". L'urgenza di trovare una cura per qualsiasi cosa. La voglia di sottoporsi liberamente alle più spericolate sperimentazioni pur di rintracciare, in una spa di lusso come in una qualunque vasca termale, quel sacro Graal che altro non è se non la ricerca ostinata di un'utopia. Di una felicità mai pienamente raggiungibile.
Spunto narrativo interessante, da cui si dipana qualcosa che si pone a metà tra detective e mystery movie: il film si apre a Wall Street, mentre un uomo viene colto da infarto e un importante businessman annuncia via lettera la sua partenza al fine di 'ascoltare il proprio corpo' presso un centro benessere sulle Alpi svizzere.
Al giovane e spregiudicato broker Lockhart viene minacciosamente assegnato il compito di andarlo a riprendere. È ignaro, come lo spettatore, che dietro sorrisi di cortesia e trattamenti amorevoli si nascondano segreti e misteri centenari, orride sperimentazioni sui corpi e delitti a ripetizione: naturalmente, lo scoprirà a sue spese. Ad interpretarlo c'è quel Dane DeHaan già internazionalmente applaudito nelle vesti di James Dean in Life. Qui veste i panni di un ambizioso stakanovista in fuga da se stesso e da un doloroso ricordo, difficile da accettare.
Instancabile, deciso a scovare la verità ad ogni costo, è il motore della detection del film, che si dipana per almeno 130 minuti (nell'ultimo quarto d'ora tutto diviene lampante) secondo colpi di scena a ripetizione. A parte un paio di buone intuizioni, il problema del film sta esattamente in questa forsennata ricerca della scena madre a tutti i costi: sia chiaro, l'inverosimile al cinema è pane per i denti dei cineasti, non sorprende tanto l'iperbole sulle sperimentazioni sui corpi, quanto le continue paradossali ingenuità di scrittura. Dal lucore di una sigaretta mai vista in precedenza - nel bel mezzo di una fuga, con tanto di gesso alla gamba - fino all'improbabile soluzione narrativa del finale, che non staremo a svelare, ma che tuttavia fa perdere ogni tipo di credibilità a un film pur godibile nella prima parte.
Uno Shutter Island senza la poderosa mano di Martin Scorsese dietro la macchina da presa, che si risolve in un duello all'ultimo sangue in stile Marvel, secondo un pasticcio di generi che nuoce al film e a chi lo guarda. Si segue con passione tutto il giallo del caso, fin quando le carte non vengono totalmente sparigliate e il film deraglia su altri generi, strizzando l'occhio al cinema più commerciale (e di serie b, con scene come una pala ficcata al centro della fronte del villain, raccontata per giunta in soggettiva, con un cambio di sguardo improvviso e non giustificato).
Una prova di sopportazione eccessiva per chi non è avvezzo a torture ai denti e tubi conficcati nella gola, e una ghiotta occasione sprecata: a picchi concettuali degni di nota corrispondono altrettanti capitomboli a livello di resa visiva e sceneggiatura, con una regia più attenta ai vezzi estetici e ai sontuosi movimenti di macchina che all'opportunità degli stessi.
A nulla servono alte citazioni sparse a caso, come il libro "La montagna incantata" di Thomas Mann (anch'esso ambientato in un sanatorio a dir poco bizzarro, ma meno inquietante). Restano tre perle: le note struggenti di Hans Zimmer, la straniante performance di Mia Goth, a metà tra Mia Wasikowska e Adele Exarchopoulos, e un messaggio - termine detestabile in cinemese, ma tant'è - su cui vale la pena riflettere: "La cura della condizione umana è la malattia, perché solo allora c'è speranza di una cura".