La storia pop del film sa comprendere e incarnare lo spirito artistico della contemporaneità.
di Roy Menarini
Per lo più frainteso come un film di puro intrattenimento e per questo motivo abbastanza snobbato dal punto di vista critico, Sing ci appare invece come uno dei film animati più centrali (e centrati) di questi anni, per come sa comprendere e incarnare lo spirito artistico della contemporaneità. Da qualche anno, infatti, solenni filosofi e ricercatori di pregio si stanno interrogando sulla natura dell'odierno pop. La musica, infatti, è solo una parte - sia pure l'asse portante - di ciò che consideriamo pop e global nell'universo dei consumi culturali del presente. All'interno di questo mondo, troppo spesso liquidato come superficiale e grossolano, si muove a ben vedere una forma di creatività industriale, diffusa, non meno eccitante di quella dei singoli artisti creatori, di cui preferiamo ammirare il genio e sovente ignorare i compromessi.
Il pop non ha necessità di compromessi, perché nasce come compromesso, nel senso più alto del termine, tra varie istanze del commercio, dei destinatari, di convergenze culturali e di altre forme di intrattenimento.
E in questi anni, è proprio nel pop che si è potuta saggiare la consistenza della ricerca musicale interna alla produzione di alto consumo, e persino i critici delle testate più rock o underground hanno dovuto levarsi il cappello di fronte alle riuscite altissime di autori come Kanye West, Rihanna, Beyoncé o Lady Gaga. Tutti loro trascinano il pop in un più ampio contesto fatto di moda, iconismo, audiovisivi (si pensi all'intero progetto "Lemonade" di Beyoncé), celebrity culture trasversale e crossmediale.
I talent show di cui Sing si ciba - per poi risputarli fuori in forma di cartoon cinefilo e musicofilo - sono una colonna portante del pop contemporaneo, perché sanciscono un repertorio, un archivio, un catalogo infinito di musica che (tutta quanta) converge a costituire l'arte popolare di oggi. Se Sing passa da Sinatra ai Queen, da Stevie Wonder a Carly Rae Jepsen, non è solamente per tenere furbescamente insieme nonni, genitori e figli senza far sbadigliare nessuno, ma perché il pop è esattamente questo: frullare e digerire tutto ciò che un tempo era distinzione tra musica alta e bassa, bianca o nera, punk o orchestrale, e farla diventare patrimonio creativo diffuso. Potrà non piacere, ma è così, e X Factor ne è esempio perfetto.
Sing fa suo tutto questo discorso interno alla cultura degli anni Duemila, ridistende la playlist in un antro magico (il teatro che si sta indebitando) e lo spinge, persino con una radicalità sorprendente, nello sposalizio con la pop industry di questi anni.
È possibile tenere insieme Broadway, Katy Perry, la tradizione animata e la dimensione pedagogica del cartoon? Sì, nel momento in cui comprendiamo che è esattamente questo il progetto di Sing: dimostrare che la musica d'imitazione, il live karaoke e il talent show possono funzionare persino in un cartone animato, negazione stessa del reale e della diretta. Sarà per questo che tutto il film pullula di soluzioni ritmiche dettate da simulazioni cinematografiche: raccordi sul montaggio, trucchi sulle dimensioni degli oggetti, giochi con la macchina da presa, e persino un inaudito - quanto inedito - time lapse finale. Il resto è pura intensificazione ritmica (su cui la Illumination non ha mai avuto alcunché da imparare da nessuno), ma intessuta di una tale fisicità e matericità (la sbalorditiva sequenza dell'inondazione del teatro, per esempio) che meriterà in futuro analisi più approfondite. Insomma, Sing non è solo un film perfettamente adatto al contemporaneo, ma ne rappresenta una sorta di analisi paradossale perché gestita con materiali estranei alla tradizione animata.