Un film autenticamente figlio dell’eredità neorealista nello sguardo interiore, nel linguaggio iconografico, nei contenuti politici.
Nell’immaginario collettivo (dei romani senza dubbio) Roma non è territorio del pensiero borghese (come alcuni celeberrimi film italiani degli ultimi decenni, in fondo in fondo, vorrebbero che fosse!). La città eterna è soprattutto il luogo in cui il pensiero popolare si afferma su tutto il resto, autodeterminato a non lasciarsi schiacciare dalla vita, violento quando privato (senza avere opzione di scelta se non subire) dell’istruzione e del lavoro (la criminalità non si genera e prolifera su questi capisaldi?), sempre generoso verso una società che dopo averlo manipolato e abusato lo guarda con disprezzo, ma soprattutto disposto a continuare a sognare (l’amore e una vita migliore) e pronto, laddove sia messo in condizione di farlo, ad avere un ruolo positivo all’interno della società civile. Nato durante il fallimento imperiale di trasformare gli ideali repubblicani, il pensiero popolare romano è sopravvissuto e sopravvive a qualsiasi forma di condizionamento di potere, mantenendo intatto il fascino dell’autenticità. La borgata (negli occhi del regista bellissima e trasfigurata come negli interni domestici degli artisti post-moderni), è lo spazio urbano che custodisce, preserva e tramanda questa ricchezza: il borgataro Enzo un eroe soprattutto perché, nonostante privo del nutrimento culturale del quale ignora l’esistenza (s’intravede il fallimento della scuola ormai incapace di creare mobilità sociale come negli anni del boom economico italiano), mantiene l’incanto verso la vita (non quello nostalgico e retorico, ma quello più che lo rende più umano) e continua a credere nell’amore. Enzo e Alessia guardano alla televisione e al cinema come uno strumento di self-education: la ragazza riconosce e si affida istintivamente all’esotismo di quel mondo giapponese così distante per munirsi di un’autorevolezza della quale non comprende appieno il significato (e comunque sedotta dalla raffinatezza della cultura giapponese, perché pronta a cogliere anche un bagliore di quel privilegio), alla ricerca di figure che possano difenderla e proteggere dai mostri che la vita ha messo sul suo cammino. Il suo personaggio è semplicemente incantevole e commovente, un femminile profondo aperto verso il mondo fino all’ultimo respiro (“aiutali tutti”, suggerisce a Jeeg). Lui rifugia la propria inadeguatezza nel porno, incapace di prendere contatto con il corpo femminile e con quello sociale nella maniera più giusta, la televisione un seno materno che placa le paure e il vuoto, lo yoghurt alla vaniglia un cibo infantile di felicità. Intorno a loro una comunità criminale senza scrupoli (che spesso si interroga sulle proprie aspirazioni e sulla possibilità di rinunciarvi, accettando lo stato dei fatti come l’unica realtà possibile), priva di sogni (a parte quello voyeuristico di riprendersi con il cellulare o di credere illusoriamente che l’acquisizione di un ruolo sia apparire in tv, a prescindere dalle proprie azioni e dalle proprie scelte, trend socio-culturale perfettamente aderente agli ultimi trenta anni) e violenta. Ma alla fine della storia, sono le scelte personali dell’individuo quelle che lo rendono una persona degna di essere chiamata “essere umano”: Jeeg decide di usare i propri poteri per aiutare gli altri, senza volerlo dando una lezione morale alla società. Le mura del Colosseo come i tetti di Gotham e forse anche di più se permettono a Enzo di osservare Roma e la storia con occhi nuovi. Un cast straordinario, un’attrice sublime, un attore destinato a diventare un gigante del cinema, un regista coraggioso (e quando si inizia con un capolavoro il lavoro che ti aspetta non è in discesa, ma tutto in salita perché il pubblico vorrà da te sempre un altro capolavoro).
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