Lo chiamavano Jeeg Robot
Tarantino e i Manga giapponesi sbarcano sulle rive del Tevere nell’opera prima di un regista indubbiamente abile nel maneggiare la macchina da presa, ma non all’altezza dei suoi ‘padri’. Perché piacciono a molti i supereroi dei Manga e i pulp di Tarantino? I primi per la dimensione epica esorbitante e assoluta, dove l’iperbole dichiarata e una grafica potente genera insieme il massimo di partecipazione e il massimo di distacco. Tarantino ottiene lo stesso risultato associando all’iperbole accesa di volti, immagini e azioni una feroce e divertente ironia. Il regista Mainetti e i suoi attori – ahimé – appaiono ancora inesorabilmente figli di una certa produzione pop italiana, moralistico-sentimentale, che si coniuga molto male con i generi evocati. Il risultato della contaminazione è – come ho sentito dire a molti spettatori disorientati – 'strano', ma non certamente esaltante, almeno per me. La storia è piena di trovate interessanti, ma l'interpretazione non tiene. Il supereroe di Mainetti è depresso e deprimente: si aggira nell’atmosfera livida di un film violento fino alla noia con l’aria triste di un cane bastonato, senza un briciolo di distacco e di ironia. Il malvagio di turno con gli occhi iniettati di sangue non impressiona e non diverte, anche se – a differenza del protagonista, che sembra un impiegato della ASL licenziato, ha almeno un buon fisique du rôle. Non si riesce a dire nulla di significativo della deficiente e piagnucolosa coprotagonista Alessia. Tutto e tutti appaiono posticci e noiosi. Si arriva con fatica alla fine, consolati dalla qualità della fotografia e della macchina da presa, che si sperano applicate in futuro a film più convincenti.
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