Con il suo ultimo film, da domani al cinema, la regista francese polemizza con caparbietà verso la generazione contestataria degli anni 70, oggi conservatrice.
di Mauro Gervasini
Quella "certa qualità" del cinema francese. Ai tempi tellurici dei "Cahiers du cinéma", quelli dei giovani turchi, lo si diceva con accezione negativa, prendendo di mira l'accademismo dei film popolari, impeccabili nella forma ma poco incisivi nella sostanza.
Terminata la temperie ideologica (che però investiva eccome anche l'estetica) si è tornati a considerare il calligrafismo dei cineasti d'oltralpe con più indulgenza. Tanto più che di quella "qualità", prima di tutto letteraria (copioni di ferro e di conseguenza una regia funzionale al testo), sono oggi interpreti registi anche impegnati, che vorrebbero andare oltre il semplice intrattenimento raccontando storie "polemiche" o "politiche".
Può sembrare paradossale, ma Un'estate in Provenza di Rose Bosch appartiene a questa categoria. Paradossale perché sulla carta la vicenda pare innocua: due nonni, interpretati da Jean Reno e Anna Galiena, accolgono in campagna i tre nipoti, uno dei quali, il più piccolo, sordo dalla nascita. La convivenza è difficile per tutti, finché un risvolto narrativo che affonda le proprie radici nel passato della coppia, e soprattutto del nonno, non trasforma il soggiorno dei ragazzi in un'occasione di crescita reciproca.
Attori affiatati, un ottimo Reno, la spontaneità dei ragazzi che subito ti conquista, l'ambiente bucolico, la bella fotografia (di Stéphane Le Parc)... Eppure, dietro la buccia solo edificante di una commedia per famiglie, Rose Bosch, anche autrice della sceneggiatura, è polemica (verso la generazione contestataria degli anni 70, oggi conservatrice, qui rappresentata dai personaggi di Galiena e Reno) e politica (perché lo sfondo è lo stereotipo della provincia come rifugio dai vizi della capitale, o della grande città).
Certe semplificazioni possono non piacere, naturalmente, ma l'autrice è caparbia, sfida il luogo comune, rivendica l'appartenenza diretta ai mondi e alle storie che mette in scena. A proposito di Un'estate in Provenza, lei è nata e cresciuta lì, nei luoghi dove è ambientato il film.
Ma il pomo della discordia, quando si parla di Bosch, è il titolo precedente, Vento di primavera (2010) anche in Italia un discreto successo. Si racconta, attraverso il punto di vista di un bambino, la retata del Velodromo d'Inverno (Parigi, 15 luglio 1942), quando la polizia francese, guidata da ufficiali della Gestapo, concentrò 13 mila ebrei, di cui 4051 minori, nel velodromo in attesa di deportazione. Il film viene accolto generalmente bene, ma anche pesantemente criticato, in particolare dal settimanale "Les Inrockuptibles" e dal quotidiano "Libération", oltre che da un sito web addirittura citato in giudizio dall'autrice.
Si rimprovera a Vento di primavera di avere trattato con convenzionalità melodrammatica un tema come quello della Shoah, e al di là delle polemiche (feroci appunto, e con strascichi giudiziari) è chiaro come l'utilizzo dei codici più accademici, con qualche spunto kitsch, per rappresentare un episodio così controverso come quello del velodromo d'Inverno, possa portare alla rivolta gli alfieri del "rigore", riproponendo l'anatema di Jacques Rivette verso il celebre (o famigerato) carrello di Kapò.
Giusto che lo spettatore, a seconda della propria sensibilità, si faccia un'idea propria, critica o ammirata, del tipo di cinema di cui Rose Bosch è esponente. Una cosa invece rientra nel campo dell'inopinabile: non esistono storie che non possano essere raccontate, anche se lo stile del racconto non ci piace.