Ma io non capisco… perché ci tieni tanto? Si’, io ti amo,ma siamo riusciti solo a odiarci e dominarci a vicenda, facendoci molto male, perché? // Si chiama matrimonio. Questo uno dei tanti dialoghi concitati tra di due protagonisti del nuovo film di Fincher.
Contestualizziamo: giorni nostri. Due giovani,belli,ammirati, intelligenti e borghesi, Amy (Rosamund Pike, ex bond girl) e Nick (Ben Affleck,ex Argo man), si conoscono a una festa ed è subito amore. Scrittore creativo lui, plurilaureata dal passato oscuro lei ora casalinga paranoica, conoscono crisi e ostilità dopo il fatidico 2008. Sacrifici della famiglia e soldi derivanti da un fondo (di lei) spingono i due a causa del licenziamento dalle rispettive redazioni e all’abbandono delle reciproche aspirazioni, a lasciare la ricca New York per il ritorno a North Carthirdge, paese natale di lui nel Missouri. Nick impiega i soldi per aprire un Bar “The Bar”, lei divora libri e appare atona e priva di amicizie, tutta casa e famiglia.
Passano cinque anni. Improvvisamente, così si apre il film, Amy scompare misteriosamente e,ovviamente, il marito diventa il sospettato numero uno della sua sparizione. Le analisi effettuate dai detective provano la presenza del sangue della dolce mogliettina in salotto, in cucina, addirittura in un attizzatoio del camino, dove verrà trovato, ancora non completamente bruciato, il suo diario, contenente terribili segreti sulla relazione delle coppia. Emerge la violenza che “lui” a detta di “lei” le avrebbe arrecato, continua con la presunta maternità di lei, prosegue in un distorto gioco di specchi per le allodole atto a confondere media,vicini,polizia.
Ed il je-accuse è evidente: Nick è il capro espiatorio, colpevole di essere responsabile della sparizione della moglie. Resta da capire se l’ha uccisa forse preda di un raptus omicida. Lo crede il poliziotto, collega della detective che segue le indagini, lo credono i media pronti a giocare con l’intimità di cronaca di ciascuna famiglia esaltando lo scheletro dell’armadio reconditamente nascosto spingendo quasi a confessare atti mai commessi declinando l’accusato ad una strenua quanto difficile difesa.
Ma veniamo a Nick. Anche lui non è quello stinco di santo che vuol far credere come lo spettatore avrà modo di comprendere dal suo comportamento tutt’altro che cristallino, figlio anche di una situazione familiare ovviamente non stabile (il padre ora ricoverato in una casa di cura abbandonò la madre) dove la sorella, sola, dà quasi sé stessa (si indebita per pagare un prezioso avvocato al processo) per sostenere l’unico lembo di famiglia non ancora rovinato dal destino.
David Fincher ci mancava. Suoi sono i tanti thriller famosi del 2000 (come dimenticare le vicende del killer dello Zodiaco oppure il claustrofobico contenuto della stanza chiusa della Panic Room?) ma anche lo spietato Seven del 1995 mostrava al pubblico la natura perversa del gioco degli scacchi dei sentimenti umani sottoforma di vizi capitali.
Qui il cineasta pare comporre un gioco di specchi, frammentario e sfuggente, un noir sulla vita di coppia che si inserisce nel contesto di un’unione familiare precaria e malata. Si diverte Fincher, pare quasi di vederlo dietro la macchina da presa, a seminare falsi indizi nella prima parte, ad imbastire l’intera commedia con sapienti flash-back su Amy e Nick (inclusi i loro assai frequenti rapporti sessuali), sulla felicità della presunta coppia per poi a metà rovesciare completamente ogni assunto, realizzando quasi un altro film, indipendente e dalle tematiche assai più psicologiche.
Si instaura quindi un meccanismo ben noto in cui lo spettatore ha la possibilità di studiare i comportamenti e le azioni che scorrono in parallelo di Amy e Nick: quello che prima era sospetto, diventa realtà, tradimento e poi rimorso in un tourbillon di doppi-giochi, travestimenti e precisa quanto efferata volontà di fare del male alla persona amata che sembra la costante della nuova frontiera del thriller alla Fincher.
Abbiamo ancora ben presente l’orrido contrappasso di Seven. Ebbene anche in Gone Girl il presupposto è simile: la vera sorpresa non sta nella precisione chirurgica e nella fotografia ridondante fatta di elementi asettici, privati e dell’ardore della quintessenza mediatica oppure nella scomparsa dell’ “innocente” Amy quanto nel gioco di ombre orchestrato per vibrare al cuore della vittima e farlo soffire senza pietà fino a ucciderlo (cosa che “l’amante di Proust” conoscerà a sue spese).
Si assiste in buona sostanza a un thriller esistenziale dove la violenza domestica, figlia delle ostilità sociali, dell’arrivismo malato, della concezione distorta di un amore che è solo appagamento sessuale fisico, ammala la propria identità. Amy diviene una novella Novak di Hitchock, Nick, un bastardo puttaniere affettivamente provato.
I due sono oramai persi da tempo, inutile attendere la sparizione dei famosi cinque anni, i loro spiriti corrotti dal crudele gioco del mondo, sono stati piegati dalla perversione e dalla rapacità.
E non si sa se questo uccida i sentimenti più di una lama di rasoio alla gola.
Dal best seller di Gillian Flynn (che ne è anche sceneggiatrice) nelle sale dal 18 dicembre.
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