ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER
David Fincher è di nuovo alle prese con una storia che sprofonda nella psiche dei suoi personaggi, all’insegna, come spesso nei suoi film, dell’inquietudine e della nevrosi, questa volta sfoggiando uno stile decisamente celebrale e verboso. Dialogo dopo dialogo, tesse una storia complessa che spesso sottintende critiche piuttosto aspre alla società contemporanea, cercando di assumere sempre la prospettiva di chi ne sa di meno. Ed è proprio questa sensazione (quella di non sapere nulla) che si respira in sala sempre più intensamente scena dopo scena alimentata da profonde alitate di stupore ad ogni colpo di scena. Il regista, infatti, si diverte più volte a rimescolare le carte in tavola. La faccenda si complica ulteriormente quando, una volta fatta luce sul rapimento, le prospettive si moltiplicano e la trama si reinventa in un gioco di parti in cui i sentimenti si mischiano alla fredda metodica razionalità. Pellicola macchinosa ma tenuta lontana dal manierismo e dalla comicità involontaria da uno studio minuzioso dei personaggi tale da renderli coerenti con le proprie azioni, e così facendo sorreggere la trama dando (ir)ragionevoli giustificazioni ad ogni assurda mossa della partita a scacchi ricca di colpi bassi che va delineandosi sullo schermo. Se in altre grandi opere, come Fight Club, il regista aveva raccontato la psicosi con un linguaggio che puntava all’incisività e, diciamolo, con un certo compiacimento nel spettacolarizzare la violenza, sta volta l’atteggiamento sembra mutato, la stessa duplicità di punti di vista denuncia la volontà di ricercare un’analisi psicologica più minuziosa e realistica, riducendo la regia ad un ruolo quasi teatrale, ad incorniciare con pacata abilità e sapiente discrezione ogni scambio di battute. Ciò che ne deriva è un prodotto che parla più al cervello che alle emozioni, sicuramente più distaccato, serio, realistico, che si sviluppa per progressiva comprensione dei fatti avvenuti mettendo in luce, sul finale, l’ultimo, irrisolvibile interrogativo, destinato ad echeggiare nella mente dello spettatore durante i titoli di coda e dopo: il recupero della soggettiva iniziale ci riporta al primo piano del volto perfetto e a tratti inespressivo di Amy, che stavolta ci appare arricchito da un sostrato di diabolica genialità e ci invita, ancora una volta, a interrogarci su quali forze muovano i pensieri distorti di quella mente malata.
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