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La pelle e la pellicola

La pelle come contenitore dell'Io, nella teoria psicanalitica e nell'ultimo Almodovar.
di Marianna Cappi

In foto Antonio Banderas e Elena Anaya in una scena del film La pelle che abito di Pedro Almodovar.
Antonio Banderas (José Antonio Domínguez Banderas) (63 anni) 10 agosto 1960, Malaga (Spagna) - Leone. Interpreta Robert Ledgard nel film di Pedro Almodóvar La pelle che abito.

mercoledì 21 settembre 2011 - Approfondimenti

Fin dove può arrivare una persona ferita? Chi è davvero il ragno e chi la preda? E soprattutto: di cos’è fatta la nostra identità? Come e quando si acquisisce? Si può perdere del tutto? Si può rubare? Trasferire? Questi sono gli interrogativi sollevati da "Mygale" ("Tarantola", nell’edizione italiana), il libro del francese Thierry Jonquet da cui Almodovar ha tratto La pelle che abito.

Il mito dietro al film è quello dello scienziato pazzo, del dottor Frankenstein, ma iniettato di mal d'amore e di melodramma. Prima incursione del regista ai confini dell'horror ("un horror senza grida di spavento", precisa lui stesso) la pellicola, nella sua memoria epidermica e vale a dire (come vedremo) cinematografica, reca tracce di "Les yeux sans visage (Occhi senza volto)" del maestro del realismo fantastico Georges Franju (1960), film precursore dell'horror chirurgico, però ancora maggiormente interessato al bianco e al nero dell'anima che al rosso del sangue. In versione pulp lo stesso argomento riemergerà, a soli due anni dall'opera di Franju, col titolo "Gritos en la noche (Il diabolico dott. Satana)" di Jesus Franco: il primo horror spagnolo.
Se negli esempi citati è la figlia del chirurgo la bella deturpata dal fuoco, in Almodovar è prevedibilmente la moglie del protagonista ad essere rimasta carbonizzata in un incidente e a causare la "lacerazione" psichica che innesta la follia dello scienziato. Ma ciò che è più interessante, in questo diciannovesimo lungometraggio col quale il regista spagnolo finge di cambiar pelle ma in realtà completa la propria plastica, è l’idea "psicosomatica" che lo attraversa.

Come fossero lembi di pelle, Almodovar cuce insieme gli ingredienti della propria personalità cinematografica – dal trucco al parrucco, dalle scenografie d’interni ai cameracar notturni, dalle tutine alla "Kika" ai fratelli che non si assomigliano, ai figli ai sessi e agli sguardi che si (s)cambiano - e in questa corazza intera, total-body, si presenta come una versione rafforzata di sé, senza più cerniere narrative poco scorrevoli o cicatrici autobiografiche visibili: un organismo dagli ingranaggi perfetti, ormai automatici. Bene o male che sia.
Non è un caso che la parola inglese "film" sia l’italiano "pellicola" nel senso di strato sottile, pellicina, prima ancora che supporto cinematografico. Riprendendo l’invenzione dello psicanalista Anzieu, teorico dell’ "Io-pelle", è infatti esattamente questa la materia di cui è fatta la nostra identità: dal primo contatto con l'epidermide materna al contatto col mondo attraverso il tatto, la pelle è lo schermo (nel senso di filtro ma anche di foglio bianco) del nostro mentale. Funziona tanto come una pellicola, sulla quale s'impressionano i diversi contenuti inconsci, quanto come il quadro sui cui vengono proiettati e resi visibili.

Con La pelle che abito il demiurgo Almodovar aspira a controllare ogni centimetro e ogni impulso del suo corpo-film ma il risultato è freddo, odora di laboratorio. Attendiamo fiduciosi che vada nuovamente in muta e si compia il rinnovamento che qui è mancato. Meglio ancora, lo attendiamo, se possibile, "senza pelle".

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