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Horror Frames: Vanishing on 7th Street e la fine del mondo

Un film poco originale su un tema fin troppo affrontato.
di Rudy Salvagnini

Hayden Christensen in una scena del film Vanishing on 7th Street di Brad Anderson.
Hayden Christensen (43 anni) 19 aprile 1981, Vancouver (Canada) - Ariete. Interpreta Luke nel film di Brad Anderson Vanishing on 7th Street.

martedì 28 giugno 2011 - News

Essere l’ultima o tra le ultime persone sulla Terra, quando tutti gli altri sono morti o scomparsi. Non importa quale sia stato il motivo di una simile evenienza: quello che conta è che si è verificata. Quello che importa è, come direbbe Jannacci, l’effetto che fa. La fantascienza e l’horror sono stati spesso affascinati da un’ipotesi del genere e l’hanno riproposto più volte, per dipingere lo sconcerto e il disagio dell’uomo privato di ogni certezza e di ogni punto di riferimento e far vedere che, nonostante tutto, la sua natura, anche in presenza di uno shock simile, non riusciva comunque a mutare in meglio. Ne abbiamo visto vari esempi al cinema, da Il mostro del pianeta perduto (1955) di Roger Corman all’inquietante La terra silenziosa (1985) di Geoff Murphy, un film australiano rarefatto e filosofico, passando attraverso La fine del mondo (1959) di Ranald MacDougall e l’analogo L’ultima donna sulla Terra (1960) ancora di Corman, per non parlare delle varie versioni dello stupendo romanzo di Richard Matheson Io sono leggenda: la prima è stata L’ultimo uomo della Terra (1964), la seconda 1975: occhi bianchi sul pianeta Terra (1971) e la terza Io sono leggenda (2007), il recente hit con Will Smith. Tralasciando i rip-off, le imitazioni e i film che si sono solo ispirati al romanzo (tra cui potrebbe ascriversi anche, com’è noto, La notte dei morti viventi).

Benché sempre affascinante, lo scenario non è quindi nuovo. Il regista che se n’è recentemente occupato, Brad Anderson, nella sua carriera ha dimostrato buona personalità. Si è fatto notare con un film che arrivava sino ai confini dell’horror ma non li varcava, L’uomo senza sonno, noto anche e forse soprattutto per l’emaciata e intensa interpretazione di Christian Bale. Prima, però, quei confini Anderson li aveva spavaldamente attraversati con il minaccioso e rigoroso Session 9, un film promettente e discretamente riuscito. È un regista con ambizioni, che si prende i suoi rischi e si impegna spesso in progetti difficili e complessi. Vanishing on 7th Street è sicuramente uno di questi: lo scopo era quello di dire qualcosa di diverso su un tema ben noto.

Un improvviso black-out manda al buio Detroit. Paul, proiezionista di un cinema, ha la sua piletta sulla testa, stile minatore, perciò ci vede. Ma quello che vede non gli piace: tutti sono scomparsi, per terra ci sono solo i loro vestiti. La fisioterapista Rosemary, anche lei dotata di torcia elettrica, è invece in un ospedale e l’unica persona che trova è un paziente risvegliatosi nel mezzo di un’operazione a cuore aperto che nessuno può più completare. Il giornalista televisivo Luke si sveglia tranquillo al mattino pensando di trovare la fidanzata già sveglia, ma lei se n’è andata. In più, il cellulare non funziona e nel palazzo dove vive non c’è nessuno. Ma una massa di fumo nero sta salendo da una scala mobile. La città è deserta, macchine abbandonate ovunque. Il sole sorge sempre più tardi e tramonta sempre prima. Un ragazzino, James, aspetta in un bar il ritorno della mamma, che forse non tornerà più. I pochi sopravvissuti devono cercare di cavarsela e di capire cosa è successo, prima di essere anche loro inghiottiti in un nulla misterioso e orribile.

Sin dall’inizio Anderson rivela il suo vero modello: appena uscito di casa, infatti, Luke pesta accidentalmente, infrangendoli, un paio di occhiali. Il richiamo è a Tempo di leggere (1959), uno dei più famosi episodi della serie televisiva Ai confini della realtà, nel quale un bancario appassionato della lettura (interpretato da Burgess Meredith) si ritrovava a essere l’unico sopravvissuto di una catastrofe nucleare e già pregustava di passare il resto della sua vita a leggere indisturbato, la cosa che gli era sempre piaciuta di più fare e che gli sarebbe stata per sempre preclusa proprio a causa dell’accidentale rottura degli occhiali. Proprio alle atmosfere degli episodi più allucinati e amari di quella famosa serie televisiva cerca di rifarsi Anderson, che però, diversamente da quanto generalmente accadeva nella serie prodotta da Rod Serling, non è ben servito da una sceneggiatura che costruisce una bella situazione, ma non sa come venirne fuori.
Il black-out riporta l’uomo alle sue paure ancestrali. Il buio si presenta in tutta la sua profondità, impossibile da penetrare. Mantenersi dentro la luce sembra l’unica difesa contro un nemico sfuggente e invisibile, ma anche la luce più affidabile si rivela fuggevole e progressivamente più labile. La parte migliore del film - l’inizio - è anche la più “facile”: le vestigia insensate di una fragile civiltà sono rappresentate usando pochissime parole e lasciando che siano le immagini a dipingere l’oscura desolazione. Poi, quando i personaggi cominciano a parlare, è un profluvio di banalità da psicodramma: ognuno ha le sue perdite da rimpiangere e le sue domande da farsi, ma, anche per la scarsa simpatia dei personaggi, la situazione coinvolge sempre meno, più passa il tempo. Più volte si ripete la classica situazione di uno dei personaggi che fissa nel vuoto e si mette a raccontare cose che dovrebbero essere altamente significative e invece sono solo pretenziosi frullati mistico-esistenziali. Nonostante queste debolezze, il film riesce a mantenere a lungo vivo l’interesse per il mistero di fondo. Come i fantasmi di Pulse (l’originale, diretto da Kiyoshi Kurosawa, non il remake americano), le ombre che vivono nel buio hanno una forza invasiva e pervasiva incontrollabile, contengono cascami del passato in grado di ingannare e attirare. Ma la minaccia risulta approssimativa e generica, troppo svolta in punto di metafora per risultare veramente efficace: i fantasmi di Kurosawa, invece, erano un agghiacciante aggiornamento degli zombie di Romero.

La consapevolezza che il buio si sta avvicinando e sembra inarrestabile dà forza al film e crea aspettative nello spettatore che resta connesso per conoscere il terribile mistero che alberga nell’oscurità. Con questa impostazione però il film lega grandemente la sua efficacia alla bontà della soluzione finale, vero fine ultimo di tutta l’azione. In questo, proprio Ai confini della realtà era maestra nel non deludere: si trattava però di telefilm di mezz’ora che non facevano troppo attendere per dare la pugnalata finale e avevano uno stuolo di autori di prim’ordine a tessere trame e trovare idee. In questo caso, la sceneggiatura di Anthony Jaswinski, dopo la messe di dialoghi poco ficcanti, non azzecca nemmeno una chiusa all’altezza delle necessità, puntando sul facile e sul prevedibile.

Peccato perché la messa in scena non è prova di meriti. Anderson rifugge dai sensazionalismi dell’horror catastrofico e rappresenta una fine del mondo da camera, rinchiusa in uno spazio limitato reso ancor più asfittico dalle tenebre. Gli effetti speciali sono ridotti all’essenziale e la tensione è data dalle suggestioni delle ombre ammonitrici e distruttrici.
Gli attori fanno quello che possono alle prese con parti poco gratificanti: Hayden Christensen - già finto Bob Dylan in Factory Girl - se la cava nel dipingere un ritratto abbastanza credibile di un personaggio solipsista e sostanzialmente antipatico, mentre John Leguizamo e Thandie Newton affrontano stoicamente personaggi senza spessore che non sia quello del luogo comune.

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