Ci vuole una grande ingenuità per poter pensare di lasciare tutto e intraprendere un cammino solitario, senza stabilità e a contatto diretto con la natura selvaggia. E ci vuole una grande ingenuità per raccontare una storia come quella di Chris McCandless, lanciandosi in un’elegia della solitudine e della fuga, senza curarsi di cadere in contraddizione (anche in qualche dettaglio: perché Hirsch brucia i soldi ma non si disfa dell’orologio?), e finendo per raccontare una fuga da se stessi. Ma tutta l’ingenuità di Sean Penn, quando alberga anche nello spettatore-viaggiatore che è ancora in grado di sognare, diventa un pregio perché è la chiave che consente di lasciarsi incantare dal ruvido susseguirsi di immagini ed emozioni, dalla musica di Eddie Vedder e dal miracolo del viaggio. E allora la fuga di Penn/Hirsch (il secondo più bravo del primo, nei rispettivi ruoli) diviene un’odissea, una disperata ricerca di se stessi e dell’essenza di vivere, un’indagine avventurosa, irrazionale e selvaggia delle relazioni umane, della vita pura e senza sovrastrutture e del proprio rapporto con la natura. La potenza ottenuta da Penn, grazie alla perfetta combinazione di musica e immagini, è la dimostrazione delle potenzialità tradite da “Into the wild”: non occorre il voice-off per descrivere il senso dell’avventura e della scoperta quando si mostra un ragazzo che attraversa una landa desolata e innevata. Così come non occorre quando si sceglie di inquadrare una ragazza che tristemente attende il ritorno del fratello. Penn, che non è Malick, si preoccupa troppo dei suoi spettatori e ha la premura di mostrare e spiegare più del dovuto, andando spesso alla ricerca dell’emozione facile (che riesce comunque ad ottenere) e non omettendo (dal racconto cinematografico che adatta una storia vera) le ragioni meno nobili della scelta di Chris, che giustificano la sua fuga con il peso schiacciante dell’orribile famiglia borghese, mentre avrebbe potuto semplicemente mostrare una fuga dalla civiltà moderna, assurda e grottesca utopia che ingabbia gli spiriti liberi. L’odissea si perde così in una fuga e perde la sua profondità filosofica di ricerca per la ricerca per ridursi ad un capriccio estremista, ancorché comunque fonte di nuovi insegnamenti. Lodevole la fotografia e l’uso degli spazi, ottimi tutti i personaggi di contorno (la Keener è, come al solito, brava e intensa) che Chris incontra nel suo viaggio, fino a giungere all’inevitabile conclusione che conferma un adagio di Marcel Proust: “il vero viaggio della scoperta non consiste nel cercare nuovi panorami, ma nell’avere nuovi occhi”. **½
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frus
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giovedì 21 febbraio 2008
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una poesia
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il film è una dolce poesia ottenuta dalle immagini, dagli sguardi, dalle stesse parole e pensieri del protagonista. Il viaggio. La fuga tormentata dai tristi segmenti claustrofobici della società contemporanea, attraverso la libera libertà, in compagnia di sé stessi.La storia, il significato dell'esperienza, non vana di "Supertramp" è contenuta nel suo ultimo pensiero: "la felicità non è reale se non è condivisa".
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baggio10
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venerdì 22 febbraio 2008
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grande film
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nn capisco molto questa recensione, Penn nn ha fatto altro che raccontare la vera storia di Chris con documentazioni e testimonianze vere. poi il giudizio del film e della storia è opinabile,onguno ha i suoi gusti. Per quanto mi riguarda,che ho letto anche il libro, questo è un film stupendo,girato alla grande,con interpreti bravissimi. complimenti a sean penn per il suo capolavoro
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ciro
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martedì 11 marzo 2008
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concordo
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Hai perfettamente ragione. Occasione mancata perchè poteva essere un capolavoro, mentre il film non può andare oltre le tre stelle. La voce off è assolutamente fuori luogo.
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bah....
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venerdì 30 maggio 2008
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yessss
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Sean Penn ci rifila luoghi comuni, e alla fine ci riesce pure in modo ricattatorio a commuoverci alla storia velleitaria di questo qua. che se non fosse una storia vera non sarebbe drammatica, ma solo banale...perché il "falso eroismo" di chris è quasi fastidioso quanto la velleità narrativa di penn...il giovane ce si rifugia enlla solitudine perché...perché?...ah..perché i genitori sono stronzi, però in Alaska ci va col fucile el'orologio dopo aver buttato al vento la macchine e isoldi!!?...incontra gente con cui non stringe veramente rapporti, perché scappa...e alla fine tutto è un irrazionale quanto folle capriccio di un ragazzino ch si sente jack london ema scopre che in primavera i fiumi sono in piena!.
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Sean Penn ci rifila luoghi comuni, e alla fine ci riesce pure in modo ricattatorio a commuoverci alla storia velleitaria di questo qua. che se non fosse una storia vera non sarebbe drammatica, ma solo banale...perché il "falso eroismo" di chris è quasi fastidioso quanto la velleità narrativa di penn...il giovane ce si rifugia enlla solitudine perché...perché?...ah..perché i genitori sono stronzi, però in Alaska ci va col fucile el'orologio dopo aver buttato al vento la macchine e isoldi!!?...incontra gente con cui non stringe veramente rapporti, perché scappa...e alla fine tutto è un irrazionale quanto folle capriccio di un ragazzino ch si sente jack london ema scopre che in primavera i fiumi sono in piena!..ma pensa un pò...solo la foto del vero chris nel finale, ricatta il film dalla banalità assoluta
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(di tyler durden)
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francesco c.
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giovedì 15 ottobre 2009
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fare le cose "facili" non vuoldire farle male...
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E' senza dubbio vero che Penn cerchi di "spiegare" il film, e diciamo pure di "condurre lo spettatore sottobraccio", tuttavia non condannerei tale scelta registica. Sono fin troppo abituato ad opere cinematografiche che seppur belle e piene di contenuto hanno talvolta un eccessivo piacere nel celare il messaggio e la struttura dietro complessi simbolismi. Into the wild è concepito come un film apparentemente "semplice", viene addirittura diviso in capitoli (anche se essi sarebbero stati comunque riconosciuti anche in mancanza di un'esplicita indicazione), ma è ricco anche di metafore e di pregi stilistici (un esempio fra i tanti: l'inquadratura del granchio che cammina all'indietro, chiara indicazione del fatto che se Chris si fosse fermato con la coppia hyppie non sarebbe mai potuto andare avanti nella sua "ricerca"), tuttavia, ad un'analisi profonda, l'opera risulta pregnante di significato e di spunti di riflessione.
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E' senza dubbio vero che Penn cerchi di "spiegare" il film, e diciamo pure di "condurre lo spettatore sottobraccio", tuttavia non condannerei tale scelta registica. Sono fin troppo abituato ad opere cinematografiche che seppur belle e piene di contenuto hanno talvolta un eccessivo piacere nel celare il messaggio e la struttura dietro complessi simbolismi. Into the wild è concepito come un film apparentemente "semplice", viene addirittura diviso in capitoli (anche se essi sarebbero stati comunque riconosciuti anche in mancanza di un'esplicita indicazione), ma è ricco anche di metafore e di pregi stilistici (un esempio fra i tanti: l'inquadratura del granchio che cammina all'indietro, chiara indicazione del fatto che se Chris si fosse fermato con la coppia hyppie non sarebbe mai potuto andare avanti nella sua "ricerca"), tuttavia, ad un'analisi profonda, l'opera risulta pregnante di significato e di spunti di riflessione.Non credo che bisognerebbe dunque considerare inefficace la regia di Penn (a mio parere molto buona); dopotutto è giusto anche dare agli spettatori qualcosa di chiaro. Non disperate: chi ha la voglia e la facoltà di apprezzare le finizze stilistiche troverà "cibo per i suoi denti affilati"...
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