Franco Montini
La Repubblica
La bellezza, la poesia, la violenza. In una parola: C’era una volta in America. Il capolavoro di Sergio Leone che ebbe una gestazione, quasi ventennale e che fu per Sergio Leone, una sorta di testamento spirituale. Da geniale affresco sull’apprendistato di un gruppo di delinquenti del Lower East Side di New York negli anni 20, il film è cresciuto come metafora della vita, del rapporto fra i sessi, del peso della memoria, dell’imprescindibilità della violenza.
In questa ricerca del tempo perduto Leone celebra la grande storia dell’America metropolitana. Le origini della violenza sulle strade vista con gli occhi di un europeo e il suo dilatarsi fino a diventare epica nella letteratura e nel cinema. In C’era una volta in America, Sergio Leone rende omaggio a un certo cinema americano. E, per molti aspetti, lo supera. Tanto da essere diventato, per il genere western urbano, quello che Ombre rosse resta per il western della nuova frontiera: un modello insuperato. Un cast d’eccezione: eccelso Robert De Niro, drogato, fallito, destinato alla sconfitta. Magnifico James Wood, suo complice e rivale, forse mai più così bravo. Perfetti Danny Aiello, Joe Pesci, Treat Williams. L’incontro fra l’aspirante star Deborah (Elizabeth McGovern) e il gangster Noodles (Robert De Niro) è una delle pagine chiave del film. «Hai aspettato molto?», chiede uscendo dal teatro la bellissima Deborah, splendida in abito bianco. «Tutta la vita», risponde Noodles, che l’aspetta con macchina e autista. E via verso Long Island. «Volevi un ristorante sul mare? Fuori stagione sono chiusi e questo l’ho fatto aprire per te. I tavoli sono tutti apparecchiati per due. Scegli quello che vuoi». Sorpresa, abbagliata, ma non intimidita da tanto lusso, Deborah sceglie un tavolo. I camerieri si precipitano e sollecitano le ordinazioni in francese. Lei risponde con sicurezza e intanto un’orchestrina con i musicisti in calzoni e camicia marrone alla cosacca intonano “Amapola”. Tutto è bianco, luminoso, dorato. «Però. Sei libera.
Conosci il nome dei piatti. Rispondi in francese. Chi ti insegna tutto questo?», Osserva Noodles che ogni sera, in prigione, leggeva la Bibbia e pensava a Deborah ragazza quando gli leggeva il Cantico dei cantici. «Tu sei la sola persona di cui mi sia mai importato. Ma so che mi vorresti chiusa in casa e che getteresti la chiave, è vero?». «Sì», risponde lui. «Il guaio è che io ci starei volentieri. Ma il guaio è che ho dei progetti». «E io ci sono nei tuoi progetti?». «Il guaio è che io voglio arrivare in cima. Domani devo andare a Hollywood e ti ho voluto vedere stasera per dirtelo. Vuoi che me ne vada? » . «No, non voglio che tu te ne vada». «Balliamo?», propone lei. «Mi inviti?». «Ti invito». «Allora ballo». Come una fiaba, metafora del sogno americano.
Un film violento e spietato, tenero e commovente. Ma anche la denuncia di una società corrotta. Tanto che quando uscì nelle sale americane, nel 1984, la censura impose una serie di tagli “politici”.
Da L’Espresso, 26 agosto 2004
di Franco Montini, 26 agosto 2004