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Rassegna stampa di Roberto Rossellini

Roberto Rossellini è un attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, fotografo, montatore, assistente alla regia, è nato il 8 maggio 1906 a Roma (Italia) ed è morto il 3 giugno 1977 all'età di 71 anni a Roma (Italia).

A CURA DELLA REDAZIONE
MYmovies.it

Regista italiano, insieme con Visconti e De Sica il maggiore dell'epoca neorealista, autore di due capolavori come Roma città aperta e Paisà (1945-46). Ai suoi esordi realizzatore di documentari (Prélude à l'aprés-midi d'un faune, Fantasia sottomanina, li ruscello di Ripasottile), divenne regista con La nave bianca, 1941, in collaborazione con Francesco De Robertis; Un pilota ritorna, 1942, su soggetto di Tito Silvio Mursino ovvero Vittorio Mussolini, e sceneggiatura di Michelangelo Antonioni; e L'uomo della croce, 1943, un film di propaganda. Uomo del tutto alieno da affermazioni di fedeltà verso le ideologie, dotato di una personalità affascinante quanto instabile, Rossellini rivelò nel biennio immediatamente successivo alla fine della guerra il proprio autentico talento di regista creatore. Roma città aperta e specialmente Paisà (negli episodi di maggior rilievo: quelli di Napoli, di Firenze, del Delta padano) tradussero sullo schermo il sentimento ispiratore dell'antifascismo europeo e quello, peculiare, della Resistenza italiana, in pagine cinematografiche che per il loro vigore epico non meno che per la capacità di riflettere ed esprimere la tensione esistenziale di un'intera generazione, non ebbero confronti. Fu propria di Rossellini non soltanto la capacità di tradurre in valori espressivi la cronaca viva di quei tempi, ma anche l'intuizione di un modo nuovo di fare del cinema, cogliendo la realtà non più attraverso la meditazione o la soggezione a una cultura letteraria, a un realismo di origine tradizionale: ma al contrario, attraverso una nuova e autonoma consapevolezza espressiva del mezzo cinematografico, che sembrò analoga, per il cinema europeo, a quella che era stata nel periodo muto l'ispirazione pionieristica americana, o a quella rivoluzionaria sovietica. Che Rossellini reggesse il paragone, lo conferma ancor oggi una rilettura di Paisà, insieme con le evidenti testimonianze di fecondità dello stile rosselliniano, venute specialmente da parte francese, dalla nouvelle vague in poi. Meno certo è che quei primi, grandi esempi dovessero per forza di cose preludere a quella che fu l'ulteriore, assai discussa evoluzione del regista, e l'evoluzione stessa, e il carattere, di quegli autori, francesi o meno, che in Rossellini videro il proprio maestro. Dopo Roma città aperta e Paisà, Rossellini realizzò a Berlino Germania anno zero, ambizioso tentativo di puntualizzare la tragedia di quel Paese subito dopo il conflitto; seguirono poi una serie di opere assai dissimili, in cui il regista mescolò echi di diverse esperienze, culturali e private, e di contraddittori impulsi, narcisistici, esistenziali, misticheggianti. Venne, nel 1948, Amore, film "de-. dicato all'arte di Anna Magnani" e composto di due episodi recitati dall'attrice: La voix humaine di Cocteau e Il miracolo di Fellini (che vi comparve come attore); nel 1949, il regista lasciò incompiuto La macchina ammazzacattivi, non proiettato in pubblico, almeno a quel tempo; nei 1950, dopo un viaggio negli Stati Uniti donde ritornò con 1'attrice Ingrid Bergman, sposandola, Rossellini realizzò Stromboli, terra di Dio e Francesco, giuliare di Dio, quest'ultima opera assai singolare e per più versi toccante, ispirata ai "fioretti" francescani e scritta in collaborazione con padre Felix Morlion e padre Alessandro Lisandnini. Nel 1951, dopo aver realizzato L'invidia di Colette, un episodio di I sette peccati capitali, Rossellini diresse Europa 1951; nel 1952 Dov'è la libertà, con Totò; nel 1953 Viaggio in Italia; nel 1954 Giovanna al rogo di Claudel e Honegger e La paura: tutti interpretati, a eccezione di Dov'è la libertà, da Ingrid Bergman. Furono altrettanti insuccessi, di critica e di pubblico (solo più tardi, da parte francese specialmente, si accennò a rivalutare Viaggio in Italia). Rossellini smise di lavorare per alcuni anni: nel 1957, recatosi in India per conto della televisione, realizzò una serie di documentari su quel Paese, in collaborazione con il giornalista Marco Cesarini Sforza. Dal materiale girato ricavò anche un lungometraggio presentato nel 1959, col titolo India. Separa-tosi da Ingrid Bergman, il regista sposò l'indiana Sonali Das Gupta. Nel 1959 tornò finalmente alla regia con Il generale della Rovere, su soggetto del giornalista Indro Montanelli e per l'interpretazione di Vittorio De Sica. Fu un discutibile film, premiato tuttavia ex-aequo alla Mostra di Venezia di quell'anno, insieme con La grande guerra di Mario Monicelli. Vennero poi: Era notte a Roma, 1960, un'opera trascurabile; Viva l'Italia!, 1961, girato in occasione delle celebrazioni per il centenario dell'Unità e interpretato da Renzo Ricci nella parte di Giuseppe Garibaldi: ma il film riuscì retorico e celebrativo almeno nella misura in cui non avrebbe dovuto esserlo, tenendo conto dell'autore, che quindici anni prima aveva diretto Paisà. Nel 1961 Rosse'llini firmò Vanina Vanini, da Stendhal; nel 1962 Anima nera, da una commedia di Giuseppe Patroni Griffì; nel 1966, in Francia, per la televisione francese, diresse La pnise du pouvoir pan Louis XIV.

GIAN LUIGI RONDI
Il Tempo

Dopo aver firmato alcune tra le opere più gloriose del cinema italiano neorealista, Roberto Rossellini torna, nel 1959, al tema della resistenza con Il Generale della Rovere, un film in cui rifacendosi a un fatto vero, traccia un sicuro quadro psicologico di un personaggio ambiguo nobilitato dal dramma della lotta contro i nazisti. Ouesto dramma Rossellini lo ha condotto avanti con l'impegno, il fuoco, la decisione dei suoi momenti migliori, senza disdegnare però (nota nuovissima) un felicissimo senso dell'humour che, almeno agli inizi, tratteggia con ironia sottilissima la figura spesso laida, ma sempre un po' caricaturale dell'avventuriero.

DAVE KEHR
The New York Times

IN the immediate aftermath of World War II, Roberto Rossellini made three films that helped to lay the foundations of modern cinema: “Rome Open City” (1945), “Paisan” (1946) and “Germany Year Zero” (1948). It’s almost impossible to underestimate the importance of these movies, both for the impact that their startling realism had on the audiences and filmmakers of the time and for the influence they continue to exert on directors.
Andrea Arnold’s current “Fish Tank” is only the latest example of work that continues to draw on Rossellini’s open, observational approach, which mixed location filming with studio sets, professional actors with amateurs asked to play variations on themselves, and screenplays that were not set in stone, Hollywood style, but roughed out in advance and improvised on the spot. Whenever we see a film by François Truffaut ( “The 400 Blows” was directly inspired by “Germany Year Zero”), John Cassavetes or Mike Leigh, we are in some sense experiencing Rossellini’s vision, his determination to cast aside refinements of form and style and penetrate to the heart of his human material, captured on the fly with all of its rawness and complexity intact.
Yet for decades now it’s been impossible to see Rossellini’s War Trilogy, as the films have come to be called, in any kind of decent condition. All we’ve had are ugly dupes, made from damaged, dirty prints many generations removed from the original negatives, and in the case of “Germany Year Zero,” with the actors dubbed into a language not their own.

DAVE KEHR
The New York Times

There is no figure in film history quite like Roberto Rossellini (1906-77), the Italian director who never stopped questioning the relationship between moving images and the world. As a result of his restless curiosity and capacity for change, he created masterworks in at least four different styles, reinventing himself — and to a significant degree, the movies themselves — each time.
Rossellini remains best known for “Open City” (1945), a story of anti-Nazi resistance set in the last days of the war in Europe and partly filmed in the streets of Rome. Rossellini was one of a diverse group of filmmakers, including Luchino Visconti and Vittorio De Sica, who became known as neorealists for their determination to get out of the studio and rediscover a sense of gritty, working-class authenticity.
But by the early 1950s, Rossellini had turned his back on neorealism in favor of a detached, philosophical approach (“Voyage to Italy,” 1954) that made him, along with Michelangelo Antonioni and Ingmar Bergman, a founding figure of the modernist European cinema of angst and alienation. Later in the decade he shifted again, offering with “India: Matri Bhumi” (1959) one of the first documentaries in the objective, intensely observational style that would become known as cinéma vérité.

ROBERTO ESCOBAR
Il Sole-24 Ore

"Continuerò a passare per un pazzo, ma mi rifiuto di sapere come finirà il mio film il giorno in cui comincio le riprese (...) Di sicuro c’è questo, che quando inizio un nuovo film, parto da un idea senza sapere dove mi porterà (...)". Così, nel ‘48, Roberto Rossellini parla del suo modo di girare, senza una sceneggiatura chiusa, affidandosi alle suggestioni del set. Il suo cinema nasceva lì, nella concretezza del fare, nel diretto contatto con i luoghi e le persone (Rossellini era "curioso" delle persone, dell’individualità degli attori), e con una inesauribile volontà di sperimentare, provare, mutare. E proprio questa volontà appare come la costante delle sua opera in Roberto Rossellini, biografia critica dedicata da Gianni Rondolino al nostro maggiore autore (un autore così grande, che Francois Truffaut lo considerava uno degli spiriti più illuminati del nostro secolo). Trasformato dall’intellighenzia in una specie di manifesto vivente del neorealismo, dalla stessa intellighenzia fu poi accusato di "tradimento" per film come Europa 51 (1952) e soprattutto Viaggio in Italia (1954), che più nulla aveva di neorealistico. E poi, ancora, passato all’impegno "pedagogico" e alla televisione, la sua scelta fu troppo spesso considerata una resa alla sua conclamata "crisi", e non invece una nuova ipotesi di ricerca, una nuova utopia e un nuovo sogno affidati all’antico amore per il cinema. Quel che il cinema italiano - critica, pubblico, esercenti - gli chiedeva, alla fine, era di ripetere eternamente se stesso, di chiudere la sua poetica entro le intuizioni del primo dopoguerra, quelle di Roma città aperta (1945) e di Paisà (1946). Eppure, quei grandi film neorealistici erano nati proprio dalla volontà di Rossellini di sperimentare e provare, di non subire il peso di quel che è consolidato, dell’abitudine. In quel senso, per paradosso, la guerra era stata l’occasione di un’"immensa libertà ". "Nel 1944, subito dopo la guerra - scrive Rossellini undici anni più tardi sui Chaiers du Ciné ma -, tutto era distrutto in Italia. Il cinema come ogni altra cosa. (...) Si poteva godere di un’immensa libertà, l’assenza di un’industria organizzata favoriva le iniziative più eccezionali. (...) Fu questo stato di cose a permetterci di intraprendere lavori a carattere sperimentale (...)". E poi, all’inizio degli anni 50 - di quello che Rondolino chiama il periodo "della solitudine" - la stessa voglia di "immensa libertà " lo porta a esplorare territori del tutto nuovi: l’egoismo e l’apertura agli altri in Stromboli, terra di Dio (1950) la ribellione al conformismo morale e intellettuale in Europa 51 la condizione umana e la solitudine esistenziale in Viaggio in Italia, film amarissimo, di una sensibilità che non teme l’usura del tempo, un capolavoro che vale almeno quanto Roma città aperta. Di Viaggio in Italia - che Jacques Rivette paragonò a un’opera di Matisse - Rossellini amava l’esilità narrativa, la semplicità del montaggio, la "spoliazione" dello stile: "spoliazione che rappresenta, per me, uno sforzo nuovo, ma quando riesco a realizzarla allora è una gioia senza limiti". Eppure critica, pubblico ed esercenti rifiutarono questo nuovo, sconcertante Rossellini. Rondolino va a scavare negli archivi e riporta alla luce antichi giudizi impietosi, antiche e scandalose stroncature. Ne vien fuori una lettura istruttiva, dolorosa, una lettura che la dice lunga sul conformismo, sulla mancanza di "fantasia" e di sensibilità, sulla pesantezza ideologica e sulla programmatica cecità della nostra cultura cinematografica. Dopo i "film della solitudine" - aggiunge Rondolino - di film in film la critica accentuò il rifiuto, in genere appuntandosi "sui contenuti delle opere (...) trascurando di proposito (o per incapacità) gli elementi (...) linguistici (...) gli aspetti innovatori della sua ricerca stilistica (...)". Eppure, quella ricerca continuò, anche se in disparte, lontano dalle scelte prevalenti nel cinema italiano. Rossellini abbandonò il cinema tradizionale e si volse all’utopia dell’"educazione integrale". Nacquero così le grandi opere pedagogiche dell’ultimo periodo, prima fra tutte La presa di potere da parte di Luigi XIV (1967). Tutto è comunicabile, diceva, dai problemi della scienza alle ricerche della storiografia. E quel che comunicò, però, non fu cinema-verità. Il cinema-verità è un dogma, diceva, qualcosa di immorale e pericoloso, di passivo e di inerte. Il suo cinema pedagogico, invece, era frutto di una scelta, era un’interpretazione del reale, un giudizio, un esplicito e coraggioso prender parte. C’era, in quelle opere, la stessa voglia di sperimentazione e di "infinita libertà " d’un tempo, ma in più c’erano un distacco e una saggezza nuovi. "Non mi propongo di essere un artista - dice poco prima di girare L’età del ferro (1965) -, ma un pedagogo. E ci saranno tante di quelle cose così straordinarie, che vi daranno una tale quantità di emozioni che io, io non sarò un artista, ma riuscirò, ne sono sicuro, a condurre qualcun altro all’arte". Ci sono, in queste parole, un’umiltà di fronte al mestiere e al futuro del cinema, che solo la grandezza dell’autore e dell’uomo possono spiegare.. Gianni Rondolino, "Roberto Rossellini", Utet, Torino 1989, Collezione "La vita sociale della nuova Italia", 50 fotografie, pagg. 426.

LAURA DELLI COLLI
Panorama

Amava sposarsi ma detestava i rituali delle nozze. Sul set aveva i pantaloni sformati e le scarpe impolverate ma dava del lei a tutti: agli attori come ai macchinisti. Però resta un genio a lungo incompreso e un grande seduttore, tra amori trasgressivi e grandi affetti, film straordinari e titoli da dimenticare, momenti di eccezionale benessere economico e montagne di cambiali... E le donne, tante, belle, importanti. Comunque appassionate.
Scandali e segreti che hanno costellato pubblico e privato del regista di Roma città aperta e Paisà. Seguirne il filo, tra una tappa e l’altra della sua carriera cinematografica, è leggere la vita di Rossellini da un punto di vista più intimo e a tratti inedito. Riemergono, dalla giovinezza di un ragazzo ricco e viziato, la francesina Titti Michelle, inseguita a Parigi, e il flirt con la soubrette Uliana Castagnola.

ADELIO FERRERO
Cinema Nuovo

È un peccato che gli organizzatori del Premio Fiesole ai "maestri del cinema italiano", assegnato quest'anno a Roberto Rossellini, abbiano deciso, per varie ragioni, di contenere il dibattito sul regista e sulla sua opera in limiti troppo angusti. Il riconoscimento a Rossellini, sul quale non abbiamo nulla da obiettare quando venga storicamente circoscritto agli anni 1945-48, allorché il contributo di questo autore alla nascita del nostro cinema fu certo determinante, per il contesto in cui oggi si colloca avrebbe richiesto un più ampio confronto di analisi e di idee. È noto infatti che la presunta "rinascita" rosselliniana è passata, in anni recenti, attraverso due fasi, fino a un certo punto distinte: il ritrovamento, da parte di certa critica di sinistra incline ai tatticismi più deleteri, del Rossellini di Roma città aperta e di Paisà in quello "neoresistenziale" e commemorativo de Il generale Della Rovere e di Era notte a Roma; la riscoperta, da parte francese (ma anche italiana da un po' di tempo), del cosiddetto secondo tempo rosselliniano, da Francesco giullare di Dio a Viaggio in Italia.
Sulla rivalutazione di questo Rossellini, e sia pure da un punto di vista meno ozioso di quello francese (riproposto a Fiesole con molte parole e pochissime idee dal "fervido" Comolli redattore dei «Cahiers»), era imperniata in gran parte l'interessante relazione introduttiva di Giuseppe Ferrara, per il quale la discussa "involuzione" del regista, dopo Germania anno zero, sarebbe invece rifiuto consapevole del populismo presente in tanti film neorealistici, apertura europea in senso spiritualistico, discorso anticipatore di molto cinema "moderno", da Antonioni a Bergman. Se è relativamente facile consentire con Ferrara sulla irrilevanza di certe categorie moralistiche quali "tradimento", "defezione", ecc., che furono adoperate a suo tempo, da alcuni, per spiegare la "crisi" di Rossellini e che invece servivano ben poco, è molto difficile, secondo noi almeno, seguire il relatore nel merito della sua pur stimolante proposta.

FRANçOIS TRUFFAUT

Roberto Rossellini preferisce la vita
Quando lo ho conosciuto, a Parigi nel 1955, Rossellini era completamente scoraggiato: aveva appena terminato in Germania La paura (o Non credo più all’amore, 1954) da Stefan Zweig e pensava seriamente di abbandonare il cinema; tutti i suoi film da L’amore (1948) in poi erano stati dei fallimenti commerciali e fallimenti agli occhi della critica italiana.
L’ammirazione che i giovani critici francesi riservavano ai suoi ultimi film – e precisamente ai più “maledetti”: Francesco, giullare di Dio (1950), Stromboli, terra di Dio (1 949), Viaggio in Italia (1953) – fu per lui un conforto. Che un gruppo di giovani giornalisti con ambizioni di regia lo avessero scelto, proprio lui, come maestro, spezzò la sua solitudine e risvegliò il suo immenso entusiasmo. Fu in questa occasione che Rossellini mi propose di lavorare al suo fianco; accettai e, pur continuando il mio lavoro di giornalista, sono stato il suo assistente per tre anni durante i quali non ha impressionato un solo metro di pellicola. Tuttavia il lavoro non mancava e molto ho imparato standogli vicino.
Durante una conversazione con qualcuno, gli veniva un’idea per un film. Mi telefonava: “Si comincia il prossimo mese”. E immediatamente bisognava comperare tutti i libri sull’argomento, raccogliere una documentazione, contattare un sacco di gente, agitarsi.
Una mattina mi telefona. La sera prima, in un ritrovo notturno, qualcuno gli ha raccontato le disavventure teatrali di Georges e Ludmilla Pitoëff; entusiasta, vuole cominciare il film tra qualche settimana. Immediatamente si identifica con il personaggio; mostrerà Pitoëff che si dà da fare per trovare parti di donne incinte quando Ludmilla attende un bambino, che appende lui stesso i teloni un’ora prima della prova generale, che affida all’ultimo momento una parte importante alla figlia del guardarobiere, che si fa insultare dalla critica a causa della cattiva dizione degli attori, i problemi di denaro, i debiti, le tournées ecc.
Un mese dopo ha già dimenticato i Pitoëff; viene invitato a Lisbona per discutere di un film su la Regina morta. È andato a passare una giornata a casa di Charlie Chaplin a Vevey e mi dà appuntamento a Lyon; filiamo su una Ferrari fino a Lisbona. Guida giorno e notte; devo raccontargli storie per tenerlo sveglio e mi dà uno strano flacone da annusare ogni volta che mi vede sul punto di addormentarmi.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

«Inventa» (non lui solo, ma lui soprattutto) il neorealismo, lo fa confluire in uno psicologismo spiritualista ché soddisfa le nuove esigenze della società italiana del «miracolo economico», volta le spalle alle ideologie per dedicarsi alla pedagogia, in una paradossale sfida ai luoghi comuni e alla ignoranza avanzante. È un cattolico, figlio di un imprenditore edile (la famiglia è di origine toscana e veneta), studente svogliato, appassionato di esperimenti meccanici, seduttore soffice ed elegante. Attraversa il fascismo servendolo solo quel tanto che basta per non sporcarsi le mani (con film non spregevoli come La nave bianca, 1941) e si affaccia al dopoguerra con lo sguardo sgombro da pregiudizi, se non quelli (inevitabili) dei generi cinematografici. La scoperta di Roma città aperta (1945) nasce, appunto, dalla necessità di comprendere e dall'ossequio alle regole del melodramma e della commedia. Dopo questa storia della Resistenza nella capitale, Rossellini acquista non solo comprensione (della realtà) ma anche coscienza (del linguaggio) e s'ingegna di elaborare un adeguato stile per la tragedia che si appresta a narrare: di qui i capolavori. Paisà,(1946), sei episodi della guerra in Italia, e Germania anno zero (1947), gelido ritratto di un paese traviato e distrutto.

GIAN PIERO BRUNETTA

Nel 1960 Roberto Rossellini gira Era notte a Roma, opera che, assieme al precedente Generale Della Rovere, forma un dittico sul tema resistenziale, capace di imprimere una spinta alla ripresa e rivisitazione di un argomento da tempo uscito dall'orizzonte cinematografico. Era notte a Roma pone sul tappeto non tanto nuove ipotesi stilistiche (il sistema rosselliniano evolve lentamente e in questa fase giunge al massimo di concessione alle ragioni dello spettacolo) quanto una serie di problemi di nuovo tipo, saldando il discorso dell'unità della lotta antifascista col mutamento della politica nazionale interna, la fine della guerra fredda e l'inizio della distensione internazionale. L'incontro di un russo, un americano e un inglese con i rappresentanti italiani della Resistenza, con personaggi popolari e figure di vertice della chiesa romana; da una parte riporta un atteggiamento di fondo del regista e conferma lo spirito ecumenico della sua visione della storia, dall'altra è legato in maniera fin troppo palese al mutamento dei rapporti politici in Italia e all'estero. In questo senso Rossellini si conferma regista tra i più disponibili a eseguire, con coerenza, nell'arco di tutta la sua carriera, opere per conto di una committenza politica e di governo di maggioranza. Lo sforzo più rilevante sul piano dell'interpretazione storiografica - al di là dell'invito alla pace, alla fratellanza e all'amore tra i popoli - va in direzione soprattutto di un recupero alla lotta di Resistenza delle alte gerarchie vaticane (non dimentichiamoci che, proprio a partire da questi anni, si svilupperà una violenta polemica sul ruolo del papa e sulla politica vaticana nei confronti della questione ebraica e del nazismo).
Si tratta ormai - come già era stato notato a proposito del film precedente - di una storia sfocata, verso la quale il regista non dimostra un interesse conoscitivo particolare, né trova quella giusta dimensione che gli consente di sottrarsi al pericolo di influenzare il suo destinatario.
Assai più interessante il successivo Viva l'Italia (1961) che, pur realizzato su commissione per il centenario dell'unità nazionale, e di conseguenza con una non perfetta calibratura dei materiali, è destinato a esercitare un ruolo anticipatore, così come le due precedenti opere segnano il congedo dal tema resistenziale.

GIAN PIERO BRUNETTA

«Non si può vivere senza Rossellini» si dice in Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci e in effetti in nessun momento della sua storia del dopoguerra il cinema di Rossellini ha cessato di essere un punto di riferimento, una sorta di corpo mistico, ma anche di corpo materiale a cui tutte le generazioni che si sono succedute dagli anni Cinquanta in poi hanno attinto e si sono nutrite in maniera più o meno esplicita in una sorta di banchetto o agape che ne ha valorizzato le qualità positive e mimetizzato o rimosso sistematicamente i difetti.
Vediamo di raccogliere in modo sommario quali sono le parti di questo corpo e a quale uso e a che tipo di metabolizzazione e trasformazioni sono state soggette nel corso del tempo.
Dopo India si possono individuare molti percorsi nel cammino rosselliniano che sembrerebbero non farlo eccessivamente avanzare, prima del decisivo e importante passaggio alla televisione, ma di fatto senza II generale Della Rovere e al di là della egostoria facilmente riconoscibile non vi sarebbe nel cinema italiano quella prepotente spinta a rivisitare la storia e la memoria italiana del passato prossimo e remoto in chiavi che tengano conto e affrontino senza rimozioni o tabù temi ancora scottanti come quelli relativi alla ricostruzione di momenti di storia italiana successivi all'8 settembre.
È pertanto tuttora indispensabile mantenere al centro del sistema cinematografico Rossellini e la sua opera e sottoporli a nuove interrogazioni perché quest'opera rivela oltre che una capacità di rivoluzionare i codici della rappresentazione del cinema nazionale e internazionale anche contemporaneamente delle ondate che si propagano a cerchi concentrici nel medio e lungo periodo in più direzioni e che toccano in misura maggiore o minore tutti i registi.

ANDRé BAZIN

Da parecchio tempo avevo intenzione di scrivere questo articolo e per mesi ho esitato dinanzi all'importanza del problema e delle sue molteplici incidenze. Ho coscienza della mia impreparazione teorica in confronto alla serietà e alla perseveranza con cui la critica italiana di sinistra studia e approfondisce il neorealismo. Benché abbia salutato sin dalla sua prima apparizione in Francia il neorealismo italiano, e non abbia cessato di consacrargli in seguito la mia attenzione di critico, non posso pretendere di opporre alla vostra una teoria altrettanto coerente e di inserire così profondamente come voi il fenomeno neorealista nella storia della cultura italiana. Inoltre temo di sembrare ridicolo, temo di giustificare l'accusa di volere impartire ali italiani lezioni sul loro cinema; per tutte queste ragioni ho differito una più sollecita risposta al vostro invito di discutere, su «Cinema Nuovo», le posizioni critiche del suo gruppo e sue, su alcune opere recenti.
Desidero inoltre ricordarle, prima d'entrare nel vivo della discussione, che frequenti sono le divergenze tra critici appartenenti a diverse tradizioni culturali e pure d'una stessa generazione che tutto sembrerebbe avvicinare. Noi ne abbiamo fatto l'esperienza, a esempio, nei «Cahiers du Cinéma» con il gruppo «Sight and Sound» e confesso senza vergogna ch'è stata in parte la grandissima stima che aveva Lindsay Anderson per Casque d'or di J. Becker - film che fu in Francia un fallimento - a farmi meditare sulla mia opinione e a scoprire nel film virtù segrete che m'erano sfuggite. È anche vero che l'opinione straniera è a volte fuorviata dalla scarsa conoscenza del contesto della produzione. A esempio, il successo fuori di Francia di certi film di Duvivier e di Pagnol è basato evidentemente su un malinteso. In essi si ammira una certa interpretazione della Francia che all'estero sembra meravigliosamente autentica e si confonde questo esotismo con il valore propriamente cinematografico del film.
Io riconosco che queste divergenze non sono affatto feconde e ritengo che il successo all'estero di certi film italiani, che voi a buon diritto disprezzate, procede dal medesimo malinteso. D'altra parte non ritengo che questa sia l'unica essenziale interpretazione delle nostre divergenze d'opinione nel caso di alcuni film e del neorealismo in genere. Anzitutto lei deve riconoscere che la critica francese non ha avuto torto di essere, all'inizio, più entusiasta dell'italiana nei riguardi dei film che oggi sono la vostra incontestata gloria in Italia e all'estero. Per conto mio mi lusingo d'essere uno dei rari critici francesi che hanno sempre identificato la rinascita del cinema italiano col neorealismo, anche in un'epoca in cui era di buon gusto proclamare che questo vocabolo non significava nulla e persisto oggi nel pensare che la parola è tuttora la più appropriata a designare la scuola italiana in ciò ch'essa ha di migliore e di più profondo.
Ma anche per questo m'inquieto, per il modo in cui molti di voi lo difendono. Oserò dirle, caro Aristarco, che la severità con cui «Cinema Nuovo» giudica certe tendenze da voi considerate involuzioni del neorealismo, mi fa temere che voi tagliate a vostra insaputa nella materia più viva e ricca del vostro cinema. è vero che io ammiro il cinema italiano con molto eclettismo, ma vi sono pure delle severità della critica italiana ch'io ammetto. Capisco che il successo in Francia di Pane, amore e gelosia vi irriti; è un po' lo stesso caso di quello dei film di Duvivier su Parigi, per me. Ma quando vi vedo cercare dei pidocchi nella testa scarmigliata di Gelsomina e trattare come meno che niente l'ultimo film di Rossellini, sono indotto a pensare che sotto la formula della integrità teorica voi contribuite a sterilizzare alcune delle tendenze più vivaci e più promettenti di ciò' ch'io persisto a chiamare neorealismo.

ALDO PALADINI

[...] In sostanza il Bazin viene a dire questo: ammesso che il neorealismo sia «una descrizione "globale" della realtà attraverso una coscienza "globale"» della stessa, secondo la definizione fornita dal filosofo francese padre Ayfre; e ammesso ancora che il neorealismo si opponga «alle estetiche realiste che l'hanno preceduto, e segnatamente al naturalismo e al verismo, nel fatto che il suo realismo non tanto si fonda sulla scelta del soggetto, quanto sulle modalità della sua presa di coscienza»: ebbene, Rossellini è il regista italiano che maggiormente si sarebbe spinto su questa strada, approfittando più d'ogni altro della possibilità di «filtrare» la realtà nella sua interezza, e informandola nello stesso tempo a un «postulato morale e spirituale che si rivela sempre più chiaramente nella sua opera». Non solo dunque - per la corrente critica della quale il Bazin si presenta come autorevole portavoce - Rossellini, anche da Stromboli in poi, sarebbe portatore d'un messaggio «di rara vitalità spirituale»; ma i suoi modi d'esprimerlo e di comunicarlo allo spettatore (le «modalità della sua presa di coscienza» di fronte al reale, o in altri termini il suo stile) sarebbero specialmente consentanei a darne una rappresentazione viva, pregnante [...]
In un interessante articolo pubblicato di recente da Umberto Barbaro («l'Unità», ed. romana, 24 agosto '55), si chiarivano in sede storicistica alcuni aspetti del problema relativo alla sceneggiatura nel film neorealista. Partendo dalla premessa generale che il neorealismo è nato in Italia dal nuovo spirito di libertà seguito al lungo periodo dell'oppressione politica - e che non si può intendere pienamente il neorealismo italiano se non ci si rifà alle componenti di questo spirito e del suo divenire - osserva il Barbaro che il rifiuto della cosiddetta "sceneggiatura di ferro", da parte dei registi del nuovo stile, rispondeva naturalmente a un'esigenza di libertà, e ne rappresentava un'evidente manifestazione. Ciò non significava tuttavia che un simile rifiuto fosse avanzato in nome della libertà astratta e idealistica del regista a seguire il proprio estro, e quindi coinvolgesse quello della sceneggiatura "tout court", ossia del valore da attribuirsi alla struttura compositiva del film: ché anzi, mettendo a frutto la lezione del Pudovkin assimilata più o meno consapevolmente attraverso le rielaborazioni e le indagini dei teorici di casa nostra, la giovane scuola italiana riaffermava anche in sede pratica l'importanza del montaggio narrativo, e della sua previsione, con l'uso costantemente rispettato della "scaletta". Puntualizzando nella loro successione narrativa le variazioni di tempo e di spazio, la gradualità ritmica delle sequenze-base e quindi il loro specifico risalto nell'economia generale del film, la scaletta ne costituisce com'è noto lo scheletro, «quasi il supporto metallico delle opere di scultura».

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