La definizione, classicissima, è di Jeanluc Godard: Anthony Mann e «il più virgiliano dei registi». In un articolo sui “Cahiers du Cinéma”, n. 92, febbraio 1959 gloriosamente intitolato Super Mann, Godard non riesce a tenersi, si lascia andare alle iperboli, mette in fila, per parlare dei western di Mann, i nomi di Conrad, Simenon, Matisse, Piero della Francesca, Balzac, Walter Scott, Stendhal, Ulisse e Ceorge Eliot. Dice che Mann rinnova il western «come la matita di Matisse reinventa i tratti di Piero della Francesca», parla di «bellezza vegetale» delle inquadrature, sostiene che «l’originalità di Mann sta nel saper arricchire tutto semplificando all’estremo», conclude affermando con convinzione che «il volto amorfo di Gary Cooper appartiene, in Dove la terra scotta, al regno minerale. È proprio la prova che Anthony Mann torna alle verità prime».
Anthony Mann è un classico: per la perfezione lineare degli intrecci dei suoi cinque western con James Stewart, per la sua sensibilità visiva, per la chiarezza della messinscena e la distanza da tutto ciò che sa di antefatto e manierato, per i conflitti interlori e gli imperativi morali di uomini sempre in cerca di qualcosa... I protagonisti dei suoi film cercano un luogo dove poter realizzare un’armonia di vita e si scontrano di continuo con un presente segnato dalla violenza. Vivono dentro un paesaggio che li avvolge sì virgilianamemte, ma in quello stesso paesaggio devono affrontare un avversano su in alto, su uno spuntone di roccia a picco sul fiume.
Mann si chiamava Emil Anton Bundsmamn, californiano di origini tedesche (San Diego, 1906 - Berlino, 1967) e mon ha cominciato con i western. Dopo anni di teatro a New York, è entrato nel cinema dirigendo provini e come aiuto regista per Preston Sturges in I dimenticati, poi ha iniziato a girare noir e thriller di serie B, come Morirai a mezzanotte (1947), suo vero debutto, storia di un fuggiasco accusato ingiustamente, e Schiavo della furia, disperato noir romantico, e Mercanti di uomini, teso noir sull’immigrazione messicana clandestina.
Il primo western è Il passo del dIavolo ( 1950), antirazzista e filo-indiano, con una nobile figura di nativo americano che ha combattuto con i nordisti e non trova pace nella sua terra invasa dai bianchi. Le furie è un western quasi psicoanalitico, ispirato a L’idiota di Dostoevskij. Con Winchester, Mann fa il passo decisivo: prende James Stewart e lo porta all’Ovest, con quelle sue lunghe braccia e la testa sempre un pd piegata da parte. Ne fa l’uomo manniano, dall’aria incerta, sognante e ferita, un uomo oltraggiato e mai arreso, diviso tra una barbarie che può riemergere e il sogno di una misurata felicità personale, di un’impossibile vita dentro la natura, nei grandi spazi del mondo. Winchester è la storia di una caccia a un fucile e di una vendetta.
Mann: «E il mio western preferito: questo fucile che passava di mano in mano mi ha permesso di abbracciare tutta un’epoca, tutta un’atmosfera». Con James Stewart, Mann gira Là dove scende il flume, film di viaggi e di riscatto morale, poi Lo sperone nudo, con un eroe diviso tra cinismo e umanità.
Terra lontana è un magnifico racconto sul tema della responsabilità personale e L’uomo di Laramie è un western tragico, anche sadico, su destino e vendetta. Mann gira un altro bel western, Dove la terra scotta (1958), con Gary Ccoper. Poi chiude la carriera con grandi produzioni, da Cimarron a El CId, a La caduta dell’impero romano. Ma il suo tempo è tramontato e anche i western si avviano al crepuscolo.
Da Film Tv, n. 43, 2004