Andrei Tarkovsky (Andrei Arsenyevich Tarkovskij) è un attore bielorusso, regista, scrittore, sceneggiatore, montatore, è nato il 4 aprile 1932 a Zavrazhe (Bielorussia) ed è morto il 29 dicembre 1986 all'età di 54 anni a Parigi (Francia).
Dimenticate Hollywood. Là il cinema-baraccone, il business-uber-alles, il glamour e gli effetti speciali; qui, dalle parti del russo Andrej Tarkovskij, i fotogrammi e le visioni di un poeta del grande schermo, un santo laico che ha affidato alla pellicola umori, sentimenti, slanci vitali e amarezze tratte da una profonda, continua, dolorosa riflessione.
Una testimonianza di fede che si apre anche (e forse soprattutto) verso chi non crede; un cinema che sorge direttamente dalla Lebenswelt, da quel mondo-della-vita fonte di ogni senso, scandagliato da Andrej in ognuno dei suoi sette (solo sette!) film. Non solo cinema, per fortuna. Pensiero, pensiero forte che si esprime, oltre che con la celluloide, con la parola scritta. Conoscevamo già Scolpire il tempo, la summa dell’estetica di Tarkovskij pubblicata da Ubulibri nell’86 (l’anno della sua morte, a soli 54 anni). Ora sono giunti in libreria i Diari, frutto della cura amorosa del figlio (di nome fa Andrej, anche lui) e di un gruppo di amici che non dimenticano, prima di tutto, l’umanità di quell’esile, instancabile russo in fuga dalla sua patria.
Portano un sottotitolo impegnativo, Martirologio, scelto dallo stesso autore fin dall’inizio della stesura, nel 1970: una parola inattuale, che di sicuro spaventerà chi pensa che il cinema, in fondo, non sia una cosa seria. E invece è la chiave di queste pagine, il senso di una ricerca che si è sempre rivolta verso qualcosa d’altro, di superiore, di misterioso, di trascendente. Fatti privati e idee su temi universali, racconto giorno per giorno dell’opera che si fa, dei progetti abortiti, della nascita di nuove intenzioni, di una volontà mai stanca, mai vinta, nemmeno nei giorni tragici della malattia finale. Disegni, schizzi, foto di famiglia, incontri pubblici, finanziamenti mancati, rapporti fruttuosi con protagonisti del cinema e della letteratura. Qui non si spia, qui si assiste al lavoro del genio, al dolore del parto, all’ansia creatrice.
Ritornano alla mente alcune annotazioni di Andrej Siniavskij, che dovevano essere certamente presenti all’autore del Rublev: "La quantità delle nostre nozioni e informazioni è enorme, ne siamo sovraccarichi. In pochi giorni possiamo fare il giro del pianeta, prendere un aereo e viaggiare senza profitto spirituale, allargando soltanto il nostro raggio informativo. Confrontiamo adesso questi pretesi orizzonti con lo stile di vita dell’antico contadino, che non si spingeva mai al di là del suo praticello... Osservando il digiuno e le feste, l’uomo viveva secondo il calendario di una storia comune che cominciava da Adamo e finiva con il Giudizio Universale. Prima di impugnare il cucchiaio, il contadino cominciava col farsi il segno della Croce e con questo solo gesto riflesso si legava alla terra e al cielo, al passato e al futuro".
Questo è Tarkovskij, queste le parole che ancora ci dice, con il suo cinema e con i suoi Diari. Andare oltre, chiudere gli occhi per vedere meglio, non fermarsi alle apparenze, sacrificarsi per arrivare all’essenza delle cose. Il suo sguardo febbricitante, la sua profonda bontà, il suo mettersi in gioco di continuo emergono da questi pensieri, che restituiscono la spontaneità di pagine non scritte per essere pubblicate.
In comunione con lui, oltre la morte, in modo diverso, eppure altrettanto profondo di quando di nuovo gustiamo i suoi film. Senza mai pretendere di "capire" tutto, lasciandoci trsportare da libere associazioni. E allora la campana di Rublev, la zona proibita di Stalker, le mele bagnate dell’ Infanzia di Ivan, l’albero morto ma ancora e sempre da innaffiare di Sacrificio e tutti gli altri "misteriosi" simboli ci parlano con la gioia di una pura, cristallina, liberatrice epifania.
Da Il Sole-24 Ore, 10 Marzo 2002
Ci sono registi che hanno girato decine e decine di film. ce ne sono altri, anche importanti, che ne hanno realizzati pochissimi: Jean Vigo ci ha lasciato due corti e due capolavori, uno di tre quarti d’ora, Jacques Tati, sei film, Erich von Stroheim nove, Robert Bresson tredici. Andrej Tarkovskij, nato nel 1932, ha diretto il suo primo film, Il rullo compressore e il violino, di 55 minuti, nel 1960, al termine dei suoi studi di regia al VGIK, la scuola di cinema di Mosca. Il suo ultimo, Sacrificio, è del 1986, lo stesso anno della sua morte. In mezzo ci sono soltanto altri sei titoli: L’infanzia di Ivan (1962), Andrej Rublev (1966), Solaris (1972), Lo specchio (1974), Stalker (1979) e Nostaighia (1983). «Ho sempre fatto i film che ho voluto fare»: è per questa fermezza che ne ha girati solo otto. Non serve molto tempo per attraversare il pianeta Tarkovskij. Ce ne vuole di più per affondare nei suoi universi, terrestri, celesti, interiori, sacri e materiali, infra e ultraumani. Tarkovskij ha messo in ognuno dei suoi lavori tutta l’essenzialità di cui era capace, tutta l’ambiguità che li rende così profondi, una forza di gravità che li schiaccia addosso al nostro mondo e una spinta centrifuga che li scaraventa via verso altri spazi. Sono film che si occupano di cose infime e solenni, che volano nel cosmo restando fedeli alla terra, film in cui ci si affida a riti meschini e si è prigionieri di atti mancati, ma in cui ci si lancia anche in imprese grandiose e gesta straordinarie. In certi momenti sembra che per compiere il minimo passo, come in Stalker, non basti la forza di cento uomini; in altri, è sufficiente la dedizione di un ragazzo per combattere una guerra, come nell’Infanzia di Ivan, o per fondere la campana, come nel Rublev.
C’è un rapporto straziato tra Tarkovskij e la vita. Un rapporto malato che non trova vie d’uscita ma che incontra vortici dentro i quali abbandonarsi: il vortice della fede antica dei padri, dei bambini e dei ragazzi, della fedeltà alla terra e all’acqua; il vortice di un’arte (perduta!) che sapeva conservare il sacro dentro un’icona per ridarcelo sempre uguale e sempre nuovo. Tarkovskij non si può immobilizzare in una formula, men che meno in un’attitudine religiosa. Il suo è spesso un mondo pagano, abitato da misteriose presenze, con oggetti che si muovono da soli, oceani che riportano a galla il passato e l’inconscio come il mare di Solaris, forze oscure che in Stalker spingono gli uomini a vagare e a cercare, solo per rendersi conto della propria impotenza, o a pregare un padre celeste, come in Sacrificio, e poi a fare l’amore con una donna ritenuta strega, con i corpi che levitano nell’aria.
Più che dello spirituale, Tarkovskij è regista del portentoso e dell’oscuro, di tutto ciò che agita l’uomo e che lo può portare, all’insù o all’ingiù, verso una cercata liberazione o una sicura bassezza. E non si sa quale sarà la direzione di questo umano affannarsi: gli astronauti di Solaris credono di salire e si ritrovano di fronte ai propri fantasmi e ai propri desideri, i più nascosti e inconfessabili.
Tarkovskij ha scritto di essersi sentito sempre a fianco dell’uomo debole. «Ho sempre amato quelli che non riescono ad adattarsi in modo pragmatico all’esistenza. Non ho mai messo degli eroi nei miei film: solo personaggi la cui forza era la convinzione spirituale, uomini che prendevano su di sé la responsabilità degli altri. Questi personaggi somigliano spesso, per i loro atteggiamenti irrealisti e disinteressati dal punto di vista del senso comune, a dei bambini che hanno una gravità da adulti». Il cinema di Tarkovskij è una sfida a tutte le forze: al peso schiacciante del potere come all’inerzia stessa delle immagini che è così difficile rendere diverse da come appaiono, così arduo aprire a ciò che si nasconde in una radura, in uno stagno o in un albero disseccato che, nell’ultimo film, bisogna continuare a innaffiare, con la speranza dei disperati, perché forse, un giorno, potrà di nuovo germogliare
Da Film Tv, n.47, 2004
Un sotterraneo conflitto con il padre (il noto poeta Arsen') si trasforma a poco a poco in un conflitto con lo Stato e il potere sovietico. Il giovane Andrej studia l'arabo, compie ricerche geologiche in Siberia, si diploma in regia al VGIK* sotto la tutela di Mikhail Romm. Il primo film è patriottico e sentimentale, secondo il gusto prevalente nelle gerarchie del cinema: narra delle sofferenze e dell'eroismo di un bambino durante la guerra, s'intitola L'infanzia di Ivan (1962) e ottiene il Leone d'oro alla Mostra di Venezia. Il secondo ha tutt'altro aspetto: -è un film biografico su un grande pittore di icone del '400, lento, aspro e desolato, privo di speranza, intriso di misticismo, che la censura sovietica blocca per anni, anche quando otterrà il premio della critica a Cannes. Dopo questo Andrej Rublèv (1969), Tarkovskij sviluppa un coerente discorso sui rapporti di autorità, è implicitamente di paternità: lo fa velatamente con la pseudoscienza di Solaris (1972), e più apertamente con Lo specchio (1974), dove narra della difficile convivenza di padre e madre, delle complicazioni provocate da un clima politico di malsani sospetti, in un affascinante intreccio di privato e di pubblico, di estatiche pause dinanzi alla natura «indifferente», di tormenti individuali dissimulati per pudore, di entusiasmi e sorprese. Ritrovare, attraverso il cinema, le radici della vita. Scoprirne il mistero. Ora Tarkovskij punta ancora più in alto, con un linguaggio sospeso che cerca di penetrare nell'arcano, con il ricorrere insistito dei simboli (l'acqua, il gocciolio, la vegetazione contorta, il fuoco): la cupa fantascienza di Stalker (1979), la purificazione impossibile di Nostalghia (1983), girato fra Roma e il senese, la follia come fuga dal mondo (e come passaggio delle consegne dell'umanità all'infanzia) di Sacrificio (1986), ambientato in un'isola svedese, chiaro omaggio a Bergman che il regista sente a sé vicino e solidale. La malattia che lo ha colpito lo uccide poco dopo che Sacrificio è stato premiato a Cannes. Il russo Tarkovskij ha reso testimonianza di fervore stilistico altissimo e di grande impegno morale.
* Istituto di cinematografia di Mosca
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Andrei Tarkovsky è stato il maggiore, e anche il più conosciuto e premiato in occidente (che poi lo ha accolto nel volontario esilio), tra i cineasti sovietici dell'ultimo quarto di secolo. In patria la sua carriera artistica (cinque film soltanto, se si esclude il mediometraggio Il rullo compressore e il violino, titolo emblematico per la sua tesi di laurea nel 1960) fu senza dubbio travagliata. Il suo unico successo pieno lo ottenne nel 1976 con la regia teatrale dell'Amleto.
Lo incontrammo trentenne, ma ancora un ragazzo alla Mostra di Venezia del 1962, in cui si rivelò con l'opera prima L'infanzia di Ivan e vinse un Leone d'oro. Lo ritrovammo quarantenne precocemente invecchiato quando, dopo incredibili vicissitudini, e dopo che ormai s'era fatto una fama a Cannes e in Europa, il suo secondo film del 1966, Andrei Rublëv, usci finalmente (1972) anche in Urss.
Figlio del poeta d'origine ucraina Arsenij, che aveva cominciato a scrivere negli anni Venti ma che stranamente pubblicò le sue raccolte di versi in coincidenza con l'attività cinematografica di Andrei (e testi del padre commentavano nel 1975 uno dei suoi film più «privati», Lo specchio), Tarkovsky si considerò subito un esponente della tendenza «poetica» del cinema sovietico, che aveva avuto in passato il suo più illustre rappresentante nel maestro ucraino Dovcenko. Egli prediligeva Dovcenko su tutti gli altri registi, anche stranieri: lo considerava «il più grande». Esattamente come Bergman, presentando per iscritto a Cannes '86 il suo ultimo film realizzato in Svezia, Il sacrificio, ha riservato la qualifica di «più grande» a lui, Tarkovsky.
Effettivamente si ritrovano nel cinema di Tarkovsky immagini di natura che possono far pensare a quelle di Dovcenko. Ma l'elemento acqua o l'elemento fuoco assumono nell'epigono russo, che vive in una epoca ben diversa da quella rivoluzionaria, una valenza simbolica ossessiva, molto lontana dal panteismo laico dovcenkiano. Questo mirava, con ottimistico slancio, alla trasformazione della società e del mondo, mentre in Tarkovsky prevale il pessimismo sulla situazione dell'umanità, che lo spinge, misticamente, a chiederne prima d'ogni altra cosa la «purificazione».
Di qui l'importanza sempre più forte del fuoco «purificatore», specie nei due ultimi film girati all'estero, anche se rimangono non meno «russi» degli altri. Il lunghissimo piano-sequenza che nel 1983 risolveva l'«italiano» Nostalghia ci fa assistere, anzi ci obbliga a immedesimarci nella lenta, angosciosa, quasi intollerabile avanzata di un uomo (il protagonista sovietico) che, come in un rito sacrificale, reca una fiammella accesa attraverso una piscina. Il fuoco come spirito e sorgente d'ispirazione, che permette il connubio con l'acqua e quindi la concretizzazione del sogno nostalgico del portatore paziente e visionario: la sua dacia, la sua campagna natale che si materializzano nel finale del film.
E c'è anche il lato atroce della purificazione: il «matto» (ma uno di quei matti che, secondo Tarkovsky, hanno più ragione dei savi) il quale si dà fuoco sulla pubblica piazza. Rituale che si ripete, tra l'altro attraverso lo stesso attore Erland Josephson, anche nello «svedese» Sacrificio; e qui con una funzione metaforica che sembra addirittura un presagio della tragedia di Cernobyl.
I film di Tarkovsky hanno sempre suscitato polemiche, a partire da L'infanzia di Ivan che non venne accolto generosamente dalla critica italiana di sinistra, ispirando a Sartre una celebre e vibrante lettera aperta a «l'Unità» (9 ottobre 1962), in cui tra l'altro si leggeva: «Ivan è folle, è un mostro; è un piccolo eroe; in verità è la più innocente e toccante vittima della guerra: questo ragazzo al quale non si potrà fare a meno di voler bene è stato forgiato dalla violenza e l'ha interiorizzata. I nazisti l'hanno ucciso quando hanno ucciso sua madre e massacrato gli abitanti del suo villaggio. Eppure, vive. Ma altrove... La verità è che il mondo intero per questo bambino è un'allucinazione e che lo stesso bambino, mostro e martire, è in questo universo un'allucinazione per gli altri».
E a proposito della morte di Ivan, impiccato dai nazisti a dodici anni, e la cui foto e il cui nome vengono scoperti nel momento della vittoria, con la stessa passione Sartre concludeva: «La morte di un bambino nell'odio e nella disperazione. Nulla, neppure il comunismo avvenire riscatterà questo. Nulla: ci viene mostrata qui senza via di mezzo la gioia collettiva e questo modesto disastro personale. Non c'è neppure una madre per confondere dentro di sé dolore e fierezza: una perdita secca. [...] Quel piccolo morto, minuscola spazzatura della storia, rimane una domanda senza risposta. [...] L'infanzia di Ivan viene a ricordarci tutto ciò nel modo più insinuante, più dolce, più esplosivo. Un bambino muore. Ed è quasi un happy end, giacché egli non poteva sopravvivere».
A mano a mano che procedeva nell'approfondimento dei suoi temi, Tarkovsky stesso si faceva sempre più critico dei propri film precedenti. Sull'opera prima ha anche rivelato una cosa curiosa: e cioè di essere intervenuto a film già iniziato, il che spiegherebbe il contrasto stilistico tra le sequenze più tradizionali (forse dovute a un'altra mano) e quelle con protagonista il bambino-«mostro», in cui il regista s'è gettato con tutta la sua febbrile soggettività. Anche nell'Andrei Rublëv ha sostenuto che «qualcosa non andava», ma esso rimane comunque un grande film, cui dedicheremo, sempre in memoria dell'autore, il prossimo articolo.
Che la personalità di Tarkovsky fosse imbarazzante per l'establishment sovietico, non è affatto una scoperta. Eppure quale altro paese, se non l'Urss, gli avrebbe dato i mezzi per creare film di grosso impegno produttivo quali Andrei Rublëv e il successivo Solaris? Lo riconosceva onestamente lui stesso. Il fatto è che, mentre il Rublëv non usciva sugli schermi, il regista lavorava a Solaris. Poi i due film, nell'Unione Sovietica, uscirono nello stesso anno, il 1972; mentre in Italia si vide prima Solaris e solo nel 1975 (l'anno in cui in Urss non usciva Lo specchio) il Rublëv.
Nel 1986 l'ultimo congresso dei cineasti sovietici ha aspramente criticato la gestione burocratica del potere esercitata dalla vecchia direzione, la quale ha portato come conseguenza la perdita di alcuni dei migliori talenti: Tarkovsky in Italia e in Svezia, Konchalovskij (sceneggiatore dei suoi primi due film) negli Stati Uniti, il georgiano Ioseliani a Parigi, l'armeno Paradzanov messo al bando (e in prigione) per lunghissimi anni e solo recentemente tornato al lavoro, in Georgia, con La leggenda della fortezza di Suram. Quali che siano le ragioni nei singoli casi, è una diaspora impressionante.
Certo Tarkovsky combatteva la sua battaglia artistica in nome di una concezione ascetica del film; non troppo gradita a chi considerava il cinema (e lo considera, anche e soprattutto in occidente) un semplice medium spettacolare. Egli non si accontentava affatto di fare spettacolo o di inserirsi nei generi usuali di indottrinamento o di evasione, ma poneva domande lancinanti sul destino dell'uomo. E lo faceva anzitutto quando si imbatteva in un genere letterario come la fantascienza. Da un romanzo polacco trasse Solaris, da un racconto sovietico, nel 1979, Stalker; ma in entrambi i casi allontanandosi velocemente dall'esplorazione del cosmo o dal semplice «avvenirismo» tradizionale, per trasformarli in veri e propri viaggi «iniziatici», in avventure all'interno della coscienza. Solaris non ha mai voluto essere la «risposta sovietica» a 2001: Odissea nello spazio, ma un'odissea nel cuore dell'uomo, sia pure scienziato, e nella sua «religiosità» terrestre. In-vece di inventare formule pubblicitarie di comodo, l'occidente avrebbe fatto meglio a curare il film sotto il profilo culturale: in Italia, per esempio, esso fu proiettato con quasi un'ora di tagli nei punti nevralgici, e con un doppiaggio dialettale infamante.
Già le opere di Tarkovsky erano in sé, e col tempo sarebbero diventate sempre di più, delicate e impervie; già non erano rivolte al «pubblico medio» di nessun paese bensì al popolo russo, depositario dei valori in cui il regista credeva e sui quali edificava i propri personaggi. l dialoghi del film Stalker; specie quelli tra lo scrittore e lo scienziato, sono quasi insopportabili; ma basta che l'obbiettivo del poeta si concentri sui prati sebbene inquinati, sull'acqua generatrice di incantesimi, sul volto buono e sofferente della «guida spirituale» (oppure di sua moglie e di sua figlia, nel forale grandioso come tutti i forali e tutti gli inizi di Tarkovsky) perché cada ogni riserva sulla faticosa meccanica della narrazione.
«Quando scoprii i primi film di Tarkovsky - scrive Ingmar Bergman presentando il suo ultimo - fu per me un miracolo. Di colpo mi trovavo davanti alla porta d'una stanza, di cui foro ad allora mi mancava la chiave. Una stanza in cui da sempre volevo entrare, e in cui lui si muoveva a suo agio. Mi sentii incoraggiato, stimolato: qualcuno esprimeva ciò che avevo sempre voluto dire, senza sapere come. Se Tarkovsky è per me il più grande, è perché egli reca al cinema - nella sua specificità - un nuovo linguaggio che gli consente di catturare la vita come apparenza, la vita come sogno».
Andrei Rublëv è un film di oltre tre ore su un pittore russo di icone della prima metà del Quattrocento, in cui non si vede mai il pittore dipingere. E se si escludono gli otto minuti forali che riprendono a colori la Trinità e le altre opere lasciate dall'artista, è un film in bianco e nero.
Sono cenni modesti, quasi marginali di fronte a un film così ricco e importante, ma bastano intanto a introdurre un discorso sulla sua eccezionalità nel panorama del cinema sovietico degli ultimi decenni, a spiegare come esso sia lontano dal genere storico-biografico di maggior consumo in Urss, e forse o indicare le prime ragioni dell'ostilità burocratica che per lungo tempo lo perseguitò. Ma senza dubbio ce ne sono altre.
Una delle sequenze-chiave è quella dell'artista che, davanti alla parete bianca, non trova l'ispirazione né la volontà di affrescarla. Per glorificare il solito principe che ha commissionato il lavoro e sborsato l'anticipo, deve dipingere Il giudizio universale (che è il titolo d'uno degli otto capitoli in cui si articola l'affresco narrativo del film). Ma gli allievi attendono invano che il maestro si decida. Uno tenta di convincerlo. «Via», dice, «ma se è cosi facile. Basta seguire lo schema. I dannati li mettiamo sulla sinistra, ad abbrustolire nel fuoco».
Appunto: Rublëv si rifiuta di seguire lo schema, e poi non vuol spaventare la gente, ma aiutarla ed aiutarsi, dialogando con lei. L'arte non nasce dal cielo ma dalla terra, non dall'alto su formule prefissate, ma dalla realtà e dal popolo, e al popolo deve tornare. Se l'artista non si sente maturo, meglio tacere. Come fa Rublëv che tace, letteralmente, per quindici anni (nel capitolo intitolato Il silenzio); e così il film, oltre che in bianco e nero, diventa anche muto, almeno nel protagonista.
Ce n'era abbastanza per sconcertare, per irritare, fors'anche per sollevare invidie (c'è anche un discorso sull'invidia, nel film); ma non certo per giustificare la tacita accusa di non si sa quale eresia. Quando si vede Andrei Rublëv sipensa istintivamente a Ejzenstejn. Non perché Ejzenstejn sia il modello d Tarkovsky, che anzi, come sappiamo, preferiva richiamarsi a Dovcenko. Ma perché Ejzenstejn è più conosciuto dallo spettatore occidentale e perché l'epoca corrusca che il film evoca assomiglia a quella di Aleksandr Nevskij e, ancor più, di Ivan il Terribile. E a proposito, come non ricordare che nell'immediato dopoguerra la seconda parte di Ivan il Terribile detta La congiura dei boiardi (che tra l'altro aveva una sequenza a colori come la seconda parte di Andrei Rublëv) fu vietata per aver trattato in modo «frivolo e arbitrario» la Storia?
Del Rublëv si è detto qualcosa di analogo, con riferimenti precisi alla sua violenza e al suo misticismo. Tarkovsky ha mitigato la prima, tagliando un quarto d'ora di film, e così, per sua stessa ammissione, migliorandolo e rendendolo ancor più efficace. Quanto all'accusa di misticismo, va detto che non aveva risparmiato né Ejzenstejn né Dovcenko. E quanto infine alle «licenze» storiche, secondo noi il centro della questione non sta nel modo in cui Tarkovsky (col suo amico Konchalovskij, che ha scritto con lui la sceneggiatura) ha trattato la Storia, ma piuttosto nel modo in cui non l'ha trattata.
Non l'ha trattata, cioè, in modo agiografico e illustrativo, come una storia da museo; ma come una storia viva, e come tale in modo aperto, con la tensione della ricerca che si prolunga anche all'oggi. Il film affronta un'epoca oscura, oltre che violenta e mistica.
Oscura perché il medioevo così è stato dovunque - dovunque, s'intende, la cultura fosse sotto il dominio esclusivo della Chiesa - e non soltanto in Russia. Violenta perché la Russia non era uscita ancora, nonostante- una prima vittoria in battaglia campale nel 1380 (battaglia con cui doveva aprirsi il film, in un primo progetto), da quasi tre secoli di dominazione tartara particolarmente efferata, e gli stessi granduchi e principi russi erano tra loro divisi e ostili. Mistica perché gli artisti di allora non si vede quale altra concezione del mondo potessero avere.
Eppure, come ha ricordato Tarkovsky nel 1967 sulla rivista sovietica «L'arte del film», tale concezione è sopravvissuta fino a noi attraverso i secoli, e il «contenuto umano e spirituale» della Trinità è «vivente e comprensibile» anche per gli uomini del ventesimo secolo. Lo è, anzi, forse più che per i suoi contemporanei. Come ricostruire alla lettera il secolo XV o la biografia dell'artista, vissuto approssimativamente dal 1370 al 1430? Bisogna rivolgersi, invece, sia alla sostanza dell'opera sua, sia allo spirito del suo tempo.
Da qui la legittimità del film, e anche il suo miracolo: poiché la libera ricostruzione del passato, frutto tuttavia di studi approfonditi, ripropone con rigore alla coscienza moderna un dibattito permanente delicato e fecondo anche nei suoi aspetti di necessaria polivalenza, sulla posizione dell'artista davanti alla Storia. E non soltanto con rigore intellettuale, ma con una forte emotività a livello anche popolare. La nobiltà di Andrei Rublëv sta nella forza di un grande recupero: nel versare sullo schermo, con realismo unito a fantasia, con violenza unita a tenerezza, ma senza fare della letteratura, il patrimonio letterario russo. Dalla prima all'ultima inquadratura, Tarkovsky fa invece del cinema.
Già il prologo lo dimostra, confermando subito quanto si diceva sul cielo e la terra. Il primo slancio è un'utopia: un uomo cerca di volare su un pallone insensato fatto di pelli e di stracci. Riesce sorprendentemente a innalzarsi, e dalla collina piana, pieno di entusiasmo prima, poi di terrore, sull'immensa pianura; infime tragicamente si abbatte tra il campo e l'acqua. Non si tratta del volo di Icaro, verso le stelle: il nuovo pathos realistico sta nell'obiettivo puntato esclusivamente, come nel resto del film, sulla madre terra. E con quello sguardo largo e mosso che supera anche il dramma dell'uno abbracciando il paesaggio di tutti, è una bellissima apertura alla ricerca terrena di Andrei.
Il monaco che sa dipingere icone esce dalla solitudine del chiosco educato a ideali sublimi di armonia e di arte, ma non ancora allo scontro con la vita, con la sofferenza umana e sociale. Il viaggio di Andrei nel mondo russo del primo Quattrocento ridimensiona i suoi sogni, e nello stesso tempo li fortifica.
La crocefissione avviene ogni giorno nelle campagne, e Cristo è il muzik: soffre col popolo e per il popolo, e il popolo lo assiste nel suo calvario. Il buffone che rallegra i contadini nel granaio viene denunciato per i suoi lazzi anticonformisti e duramente punito dalle guardie (o dai cavalieri dell'Apocalisse?) che lo trascinano via: la sua colpa è di stare a contatto con la plebe, se divertisse i signori sarebbe premiato. Nell'episodio della festa pagana, corpi nudi di donne e di uomini si rincorrono nella foresta. La nudità e l'amore fisico non sono peccato. Peccato, invece, è imporre con la forza una fede. Rublëv impara la virtù della tolleranza, e comincia a interrogarsi sul suo ruolo di artista.
Con il vecchio maestro Teofane il Greco il dialogo è continuo; nella cattedrale devastata dai tartari, Andrei parla anche con il suo fantasma. Ma la divergenza è sostanziale. Il pittore bizantino è per una religione apocalittica e punitiva, perché disprezza l'uomo che ritiene corrotto, respinge la storia che ritiene espressione del male del mondo, e accetta fatalisticamente il potere, non escluso il potere del privilegio intellettuale. La religiosità di Andrei rifiuta invece la vendetta divina, critica le sacre scritture quando si avviliscono a formalismo e a precetto (come nel passaggio sul peccato e i capelli femminili, che ribadisce la soggezione della donna all'uomo), e non si rassegna all'arte come evasione o consolazione, davanti ai disastri della guerra e ai tormenti del genere umano. Allora sì che l'arte dà scandalo, ed è vanità delle vanità. Per questo la pittura di Rublëv tace, quando il giudizio universale sembra già arrivato in terra con la scorreria dei tartari che segna, tra il fuoco dei massacri e il gelo di quella loro irridente tracotanza, il trionfo assoluto del male.
Ma di questo male non partecipa forse la crudeltà di quei nobili russi che, per impedire agli artisti di ripetere per altri signori il lavoro già fatto per loro, li accecano? Quale crudeltà è maggiore? Andrei si sente come se anche a lui avessero strappato gli occhi. Egli vive la ferocia dell'epoca, non ne rimane estraneo in una torre d'avorio monaco, giunge perfino a uccidere, sia pure per difendere una creatura inerme che poi, nella sua innocente follia, si consegnerà spontaneamente ai barbari. Ma ai barbari si sono già consegnati, per conservare il potere, quei principi cristianissimi che hanno venduto la loro fede e guardato impassibili il loro popolo sotto la tortura.
Rublëv entra in crisi quando crolla il mito della cristianità insieme con quello dell'arte nella sua dimensione estetizzante, sorretta da un'ispirazione esclusivamente mistica. Ma egli supera la crisi, travalicando anche i tempi suoi, quando il rapporto artista-uomo gli si precisa in modo nuovo, quando l'uomo esce dal silenzio per unirsi ad altri uomini che sperano e che lottano, e l'arte non è più il prodotto di una solitudine o di un'ascesi, ma di una socialità. Si apre il grandioso racconto intitolato La campana, il cui protagonista è un ragazzo (lo stesso attore dell'Infanzia di Ivan).
Solo superstite del suo villaggio, questo figlio di fonditore assume su di sé l'impresa di fondere un'enorme campana per il Gran Principe che ha vinto i tartari. L'impresa sembra insensata e utopica come il volo in pallone, ma le squadre di artigiani e di manovali obbediscono all'adolescente, che si vanta di conoscere il segreto di suo padre. La ricerca dell'argilla speciale per il rivestimento, la lotta a distanza con il committente perché non sia avaro e conceda tutti i soldi e tutto l'argento necessario, sono affidate alle fragili spalle di Boriska, alla sua volontà creatrice che sembra temprata dal secoli. E sebbene gli ambasciatori stranieri, tra i quali un italiano che viene dal primo Rinascimento, non si aspettino troppo da artisti così giovani e mal vestiti, l'impresa riesce e la straordinaria campana suona.
Ma la chiave dell'episodio, come dell'intero film, sta nella postilla allorché, piangendo ai piedi d'una betulla, il ragazzo confessa al pittore che suo padre, morendo, non gli aveva trasmesso alcun segreto; e Rublëv rompe il suo mutismo per dirgli che lo prenderà con sé, che insieme andranno per la Russia, l'uno a fondere campane, l'altro a dipingere icone.
Se c'è un «segreto» nell'arte, esso non si trasmette né si insegna, e non è soltanto il frutto di un talento, di un'ispirazione o «scintilla divina», e nemmeno soltanto di una volontà; ma di un'esperienza totale vissuta con il popolo, nel cammino della storia. Andrei Rublëv supera la propria epoca con una Trinità di angeli, quale prima non s'era mai vista, e che suscita l'ammirazione nostra, a oltre cinque secoli di distanza, forse anche nella misura in cui sconcertò i suoi contemporanei.
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006