Robert Redford (Charles Robert Redford Jr.) è un attore statunitense, regista, produttore, produttore esecutivo, è nato il 18 agosto 1936 a Santa Monica, California (USA). Robert Redford ha oggi 88 anni ed è del segno zodiacale Leone.
Nella generazione di attori che esordiscono negli anni sessanta, Robert Redford rappresenta un caso abbastanza anomalo: i suoi primi lavori cinematografici e i primi successi (a partire da La caccia del 1965, regia di Arthur Penn) lo collocano al fianco di antidivi come Hoffman, Pacino o De Niro. È la generazione della cosiddetta nuova Hollywood, che vuole lasciarsi alle spalle la consunta e un po' boriosa esaltazione di divi sempre uguali a se stessi per cercare vie interpretative più realistiche, asciutte, aderenti a storie che si vorrebbero sempre nuove: si guarda con spirito critico al cinema del passato, alla realtà contemporanea e alla storia dell'America. In questo processo Redford ha avuto un ruolo assolutamente personale: in un'epoca di disillusione e di cinismo i suoi personaggi hanno spesso un candore disarmante (come nel Candidato, Michael Ritchie, 1972, o nei Tre giorni del Condor, Sydney Pollack, 1975). Ma un filo rosso che lega molte delle interpretazioni di Redford ne fa un perfetto figlio dei propri tempi: il tema del ritorno alla natura, della ricerca di un modo di vita alternativo a quello urbano, industriale, distruttivamente moderno. Oltre a Corvo rosso non avrai 11 mio scalpo si possono citare Il cavaliere elettrico (1979) con Jane Fonda (nell'immagine della pagina a fianco), La mia Africa (1985), sempre con Pollack, o L'uomo che sussurrava ai cavai-11(1998). Ma forse la scena più significativa la troviamo alla fine di Il migliore (Barry Levinson, 1983; il titolo originale, tutt'altro che casualmente, era The Natural), con Redford che gioca a baseball in un campo di grano. Una ricerca della natura che si tinge spesso di nostalgia per il passato, come in Mi/agro o nel più recente in mezzo scorre il fiume, entrambi diretti dallo stesso Redford (che è passato alla regia nel 1980, con Gente comune).
Butch Cassidy e Sundance Kid stanno per affrontare una sparatoria: Sundance/Redford sa che per lui uccidere gli avversari sarà solo una formalità, e basta che gli antagonisti capiscano con chi hanno a che fare perché lo scontro vada a monte. Sundance non è il primo dei fuorilegge interpretati da Redford, che aveva trovato la prima, vera affermazione nel 1961 con La caccia (Arthur Penn), storia del giovane Bubber Reeves, evaso dal carcere, accusato ingiustamente di omicidio: un criminale suo malgrado, incapace di violenza. Negli anni successivi l'attore tornerà più volte a vestire i panni dell'uomo che si muove al di fuori della legge: una serie di personaggi legati dal filo comune di un coerente rifiuto della violenza, come in La pietra che scotla, del 1972, tratto dal romanzo di Donald Westlake, autore di gialli leggeri e ironici. Il tipo di storie più adatte a Redford che, in tutta la sua carriera, non ha mai ceduto alla tentazione di personaggi violenti. Se veste i panni di un gangster è Il grande Gatsby (Jack Clayton 1974), romantico, melanconico criminale in ritiro. L'anno precedente Redford aveva ottenuto uno dei suoi più grandi successi di pubblico con La stangata, forse l'unico caso nella storia del cinema americano in cui un omicidio viene vendicato con una truffa incruenta invece che con la solita strage. In questi film, come nel successivo I signori della truffa (1992), Redford aggiunge nuove tessere alla sua versione dell'eroe americano, che è fondamentalmente un pacifista, tenace, coraggioso (meglio se alto, biondo, belloccio e con il ciuffo sbarazzino). Gli strumenti per cercare la giustizia sono quelli di Brubaker (Stuart Rosenberg 1980), direttore di carcere che cerca di portare diritti e umanità anche ai criminali. Questo umanesimo democratico e non violento permea anche l'opera di Redford come regista, a partire da Gente comune (1980), film intimista che rivela un autore più attento ai rapporti fra padri e figli che alle facili spettacolarità della violenza.
Californiano, Università del Colorado, si scopre uno spirito artistico. Tenta con la scultura, poi col teatro, poi incontra il regista Sidney Lumet che lo introduce nell'ambiente nel cinema. Dopo il giusto tirocinio in qualche parte insignificante, si fa notare nel ruolo dello sfortunato evaso in La caccia. Vicino a lui c'è qualcuno che può insegnargli molto, Marlon Brando. E ha la fortuna di incrociare ottimi autori come Penn e Pollack, quest'ultimo decisivo nell'intera carriera di Redford. È importante anche il sodalizio con Paul Newman e col regista Roy Hill- in Butch Cassidy. I primi anni settanta lo consacrano: un film più importante dell'altro, Corvo rosso non avrai il mio scalpo, Come eravamo, La stangata. Finora l'attore ha mostrato grande presenza e appeal e una recitazione corretta, da adesso diventa anche ambizioso. I temi dei suoi film diventano sociali, come in Tutti gli uomini del presidente, accanto a un altro mostro sacro, Dustin Hoffman. Nel 1980 fa un altro cospicuo salto di qualità, come regista di Gente comune, dove vince un doppio Oscar, per il film e per la regia. Ormai il suo talento è riconosciuto e Redford può dedicarsi alle attività e agli impegni che tanto gli stanno a cuore. Sempre im prima linea nella cause liberals e per l'ecologia, fonda il Sundance, un festival del cinema che apre a temi importanti e dà spazio ai giovani. Il tema ecologico è in evidenza nel lirico In mezzo scorre il fiume dove il regista Redford scopre Brad Pitt. Nel frattempo gli anni sono passati anche per lui, ma presenza e appeal sono rimasti intatti, anzi... Partner di donne molto più giovani di lui (Olin, Moore, Hanna, Scott Thomas) è a perfetto agio. In Qualcosa di personale seduce la magnifica Michelle Pfeiffer e il fatto non risulta proprio grottesco. Attore e uomo completo, ancora in perfetta forma, bravo e bello, "eroe", Robert Redford è l'ultimo dei divi di una volta, lo è più di tutti gli altri (De Niro per es. è grandissimo, ma non è eroe), è una delle nostre residue sicurezze, è l'ultimo garante di un certo cinema. Che duri ancora a lungo.
Si decantano le rughe sui suo bel volto abbronzato e navigato: «La mappa somatica di una persona deve essere vista e condivisa», dichiara lui, con lo stesso trasporto con cui parla dei suoi film, della sua attività di produttore, di guida dei cineasti indipendenti, del suo impegno per le cause ambientali. A 66 anni, Robert Redford non ha perso nulla dei suo celebrato sexappeal che fece scintille fin dai tempi di A piedi nudi nel parco, Butch Cassidy (lui era Sundance Kid: da qui il nome dato alla sua fondazione e al noto festival), La stangata, Tutti gli uomini dei presidente. E non ha perso la verve polemica: «è più importante dissentire con chi non firma l’accordo di Kyoto che sbancare al botteghino», dice. Pantaloni e camicia jeans alla Marlboro Man, capelli ondulati tra il biondo e il rosso, occhiali rotondi da intellettuale, il sorriso enigmatico del Grande Gatsby, occhi furbi come nella Stangata, seducente come in Butch Cassidy: Redford è una leggenda vivente e insieme l’autarchico più glamour di Hollywood. Redford è infatti l’unico attore vivente ad avere non solo una stella sul marciapiede di Hollywood Blvd., ma anche un edificio istituzionale. La nuova sede della California del sud del Natural Reserve Defence Council, di cui Redford è membro dal 1975. È stata ufficialmente battezzata Robert Redford Building.
Dopo tre anni di pausa (l’ultima volta lo si era visto nel 2001 con Il castello e con Spy Game, accanto al “giovane Redford”, cioè Brad Pitt), Redford torna a recitare nel thriller The Clearing. Interpreta un ricco uomo d’affari che viene rapito da un ex socio (Willem Dafoe) a scopo di ricatto. Un film centrato sul dramma umano e sullo sconquasso esistenziale del rapito, della moglie (Helen Mirren), della famiglia e del rapitore stesso. «E un thriller psicologico su una famiglia felice, appagata, serena, la cui vita è scossa da un evento traumatico», spiega Redford: «Sembra che tutti vivano il sogno americano, ma le loro illusioni vengono distrutte quando il mio personaggio, Wayne, viene rapito dalla sua villa di Pittsburgh. Il copione aveva i due elementi che cerco sempre in un film: una bella trama e dei personaggi interessanti. Il tutto raccontato con una eleganza sobria che mi ha affascinato. Wayne è il prototipo dell’americano di successo. Ma questo successo ha sempre un prezzo, che paghi di persona e che fai pagare alla tua famiglia. Alla fine della tua carriera magari scopri di aver perso molto».
The Clearing, diretto dal debuttante Pieter Jan Brugge, è stato presentato lo scorso gennaio proprio al Festival di Sundance, creato da Redford nel 1982 come piattaforma di lancio per i cineasti indipendenti. Film di apertura era stato I diari della motocicletta di Walter Salles, su Che Guevara, prodotto dallo stesso Redford.
Dopo aver diretto film come L’uomo che sussurrava ai cavalli e La leggenda di Beggar Vance (ha pure vinto un Oscar come regista per Gente Comune, nel 1980), Redford torna a fare l’attore e basta. «Con la recitazione ho un rapporto ambivalente, ma rimane sempre il mio primo amore a cui non resisto, come un amante bisognoso», confida lo schivo Redford.
Padre di tre figli ormai adulti, avuti dall’ex moglie Lola Van Wagenen (sono separati dal 1983) Redford vive in un ranch sulle montagne vicino Park City (dove si svolge il Sundance Festival) insieme alla sua compagna, la pittrice tedesca Sibylle Szaggers. Californiano di Santa Monica, da giovane anche Redford aveva la passione per la pittura. Ma dopo l’inevitabile periodo parigino tornò in America per scoprire che gli interessava di più recitare. Lo strepitoso successo di “ Butch Cassidy del 1969 gli ha cambiato la vita. «È stata come un’arma a doppio taglio», ricorda: «Mi scritturavano perché dicevano che ero bello. M i sembrava strano per due motivi: primo perché quando ero giovane e sconosciuto nessuno mi diceva che ero bello. Avevo i capelli lunghi e impossibili da pettinare, ero pieno di lentiggini. Nessuna donna mi fischiava dietro: quello venne dopo e ammetto che non mi dispiacque affatto. Secondo, capii che l’aspetto era diventato un ostacolo per le cose che volevo fare. Nessuno mi prendeva sul serio. Io, invece, avevo preso sul serio il mestiere d’attore».
C’è chi lo considera un Ghandi di Hollywood, ma non tutti lo adorano. «Devo molto alla mia natura ribelle, indipendente. Mi piace stare fuori dal coro, dissentire. Soprattutto in politica», dice Redford. Nel libro Down and Dirty Pictures: Miramax, Sundance and the Rise of Independent Film, Peter Biskind riconosce a Redford il merito d’aver inventato il cinema indipendente moderno. Ma critica quel suo stile manageriale che gli ha alienato molte persone del suo stesso staff, compresi cineasti come Steven Soderbergh. Anche Peter Bart, direttore dell’influente “Daily Variety”, ironizza sui “momenti alla Redford”, cioè su quell’atteggiamento enigmatico misto a un pizzico di arroganza che mantiene la gente a distanza.
In realtà, Redford è molto meglio di come vorrebbero i suoi detrattori. Qualche settimana fa, al Bard College nello Stato di New York, davanti a 2.500 studenti, l’attore ha affrontato il delicato tema della libertà di parola negli Stati Uniti: «Pensate al rifiuto della Disney di distribuire «Farenheit 9/1 1 “ di Michael Moore», ha ammonito: «La società è ormai infetta da tanti virus: lo strapotere dei media, l’avidità, le ideologie assolutiste e soprattutto la rinuncia. Si crea un tremendo squilibrio quando chi ha il potere riesce a convincerti che non sei un buon americano se solo hai qualche dubbio, se fai qualche critica, se vuoi maggiore informazione». E in un editoriale contro l’amministrazione Bush, Redford ha scritto: «Liberare il nostro paese dalla schiavitù dei petrolio è il solo patriottismo in cui dovremmo impegnarci tutti». Bel coraggio per un divo di Hollywood.
Da L’Espresso, 10 giugno 2004
Bei tempi quando nelle sale uscivano La stangata, Come eravamo, I tre giorni del condor, A piedi nudi nel parco: solidi registi dietro alla macchina da presa; copioni perfetti, calibratissimi; e divi che sapevano coniugare le regole dello star system con un sano e valido mestiere imparato sui palcoscenici teatrali, nelle belle serie televisive di un tempo, nei corsi di recitazione che dagli anni '50 in poi segnarono intere generazioni d’attori. Uno di questi è stato, senza dubbio, Robert Redford, che ora raggiunge il placido traguardo dei settant’anni, corpo e volto indelebili almeno per un intero decennio, dal 1969 al 1980, quando Hollywood rinacque dalle ceneri del suo periodo dorato e divenne New, cambiando autori, temi e maestranze, occupandosi delle ferite aperte da una società e da un mondo che stavano radicalmente proiettandosi in un'altra era. Sotto questo punto di vista Redford è stato necessario, sia sul versante del puro intrattenimento (La stangata è un esempio che vale per tutto e per tutti), sia nel segmento civile del cinema americano wasp e democratico, in prima linea contro la guerra in Vietnam e il degrado della politica (Il candidato), lo scandalo Watergate (Tutti gli uomini dei Presidente), i deliri di potere in grado di mandare in corto circuito servizi segreti e difese nazionali (I tre giorni del Condor, I signori della truffa), il vergognoso stato delle carceri (Brubaker). La forza di Redford per anni ha vissuto della sua bellezza etica ed estetica, rassicurando in primo luogo le donne che lo adoravano e correvano a vederlo, ma anche gli uomini, più tranquilli nel sapere che un bell’uomo, biondo, tollerante, schierato dalla parte degli umili e degli onesti, sfidava chiunque proponesse scorciatoie pericolose, derive dittatoriali, modi e maniere non all’altezza della tradizione democratica degli Stati Uniti d'America. In fondo, Redford è stato la proiezione filmata del sogno kennedyano, il figlio dei fiori che al posto di bruciare in fragole e sangue l’imprescindibile lezione del ‘68, s’infilava dentro le istituzioni convinto di poterle quanto meno modificare, renderle più umane e vicine all’uomo della strada. II suo cinema è stato lo specchio di un'utopia possibile, di un sogno realizzabile, di un mondo più bello (celebri altresì le sue posizioni ambientaliste) e più giusto, di uno sguardo che sapesse cogliere e accogliere, mai respingendo, mai contro le diversità e le differenze. Parallelamente era anche un divo, un idolo, l’uomo che suggeriva romanticismi ottocenteschi aggiornati alle rivoluzioni di una sociologia che, improvvisamente, cominciò a correre nella vertigine, attratta inesorabilmente dal Nuovo Millennio che si avvicinava. Migliaia di coppie hanno consumato i loro baci e le loro carezze, i loro occhi e i loro pianti sulle immagini di Come eravamo e La mia Africa. Per non dire di L’uomo che sussurrava ai cavalli, insieme a I ponti di Madison County di Clint Fastwood, il più bel film d’amore degli ultimi venticinque anni. Attore, produttore, militante, candidato perenne e ideale da contrapporre ai reaganismi della conservazione, Redford è anche finissimo regista, fin dal suo fortunato esordio, Gente comune, grazie al quale ha vinto l’unico Oscar della sua brillantissima carriera (come attore, solo una nomination per La stangata), al quale sono seguiti Milagro, In mezzo scorre il fiume, Quiz Show, La leggenda di Bagger Vance, pellicole solo dirette tranne L ‘uomo che sussurrava ai cavalli, il suo capolavoro, forse non a caso da lui anche abitato davanti alla cinepresa. Ciliegina su una torta dai sapori dolci e facilmente digeribili, il Sundance Film Festival, la kermesse da lui creata che nei lustri ha saputo ritagliarsi uno spazio unico nell’ambito delle cinerassegne internazionali, lanciando film e autori indipendenti, cementando una fondazione che elargisce fiducie e borse di studio. Un’altra utopia possibile, un altro sogno trasformato in splendida realtà. E ora avanti, con altri desideri, in un’altra età.
Da Film Tv, n. 14, agosto 2006