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Unfriended: Dark Web, i social network visti come processo di codificazione culturale

Come i film sanno raccontare la sfumature della tecnologia. Al cinema.
di Tommaso Drudi, Vincitore del Premio Scrivere di Cinema

Unfriended: Dark Web

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mercoledì 22 maggio 2019 - Scrivere di Cinema

Probabilmente, oggi, nessuno riesce come Blumhouse ad avvicinare il prodotto-cinema alle necessità di penetrazione e comprensione della modernità richieste dai giovani spettatori. L'horror di Jason Blum, infatti, abbraccia le innumerevoli declinazioni possibili della paura, siano esse la fascinazione perversa per i meccanismi del paranormale o il trasporto simpatetico nei confronti delle realtà più macabre del nostro tempo, e le rivolge ad un target ben preciso, nella direzione di un tropismo generazionale con cui ogni membro del pubblico new age può muoversi verso il tema che più lo interessa.

Allora il film di genere che racconta la tecnologia e le sue angoscianti sfumature, dopo gli squarci mostruosi aperti sugli schermi dei nostri televisori da Black Mirror, è senz'altro lo strumento perfetto per creare una feritoia sulla digitalizzazione compulsiva e per studiarla attraverso la formula dell'incubo senza uscite e del terrore.
Tommaso Drudi, Vincitore del Premio Scrivere di Cinema

Unfriended: Dark Web (guarda la video recensione) fa sua questa costruzione discorsiva e propone una riflessione sul mondo dei social network visti come processo di codificazione culturale a cui il cinema ha già dato ampio contributo: a cominciare proprio dal predecessore Unfriended, di cui il secondo capitolo condivide solo il titolo (e più per esigenze di marketing che non prettamente narrative) e la peculiarità della messa in scena. Come nel primo film, anche in questo caso la storia si sviluppa interamente sul desktop di un computer dal quale, tramite videochiamate Skype, chat di Facebook e ricerche su Google, abbiamo accesso alle varie fasi del plot, ma nulla resta dell'entità malefica in cerca di vendetta che terrorizzava il gruppo di adolescenti, addirittura il soprannaturale non sopravvive nemmeno come residuo.

La visione del regista Stephen Susco si lascia alle spalle gli echi dell'immaginario horror e si sposta sul sottosuolo più torbido della rete, quella parte nascosta e apparentemente inaccessibile di Internet dove abita una fauna digitale spietata e violenta, legata ad attività criminali che vanno dal commercio di droga all'ingaggio di sicari, animata dal desiderio malato di soddisfare i suoi più disgustosi istinti. Si tratta di una realtà misteriosa, insieme respingente e intrigante, della quale è impossibile creare una mappatura specifica che definisca una confine tra ciò che accade veramente e ciò che invece è circoscrivibile alla dimensione della leggenda e della fantasia collettiva.

Una realtà, insomma, cinematografica, in grado cioè di rendere verità sensoriale quell'ansia profonda che la chiave per la stanza delle malvagità sia di fatto nelle mani di chiunque, più precisamente nella tastiera di un buon pc. Il film rinnova il dibattito che mette in discussione quella tecnologia di cui i giovani, ormai ne sono consapevoli, conoscono solo una piccola, piccolissima parte. L'altra parte, suggerisce Blum, appartiene ancora al mistero e, perché no, alle fantasticherie del cinema.


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