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Pablo Larrain: «Per fare Jackie ho parlato solo con le donne»

Il regista cileno racconta il suo film, la sua Jacqueline Kennedy e il rapporto controverso con potere e istituzioni.
di Gabriele Niola

giovedì 8 settembre 2016 - Mostra di Venezia

Ci sono molti motivi per i quali Jackie era uno dei film più attesi della 73. Mostra di Venezia. Sia perché è il ritorno di Natalie Portman ad un ruolo di peso in un film audace, almeno dai tempi del suo Oscar per Il cigno nero, ma anche perché è un probabile contendente per la stagione degli Oscar.

Jackie è anche il primo film americano ad alto budget di Pablo Larrain, il più grande talento espresso dal cinema negli ultimi anni.
Gabriele Niola

A partire da un genere codificato come il biopic, Larrain si è mosso con la libertà che lo contraddistingue, e così gli abbiamo chiesto come mai abbia scelto proprio questo soggetto per il suo passaggio americano e come abbia voluto relazionarsi all'idea di ricostruire la vita di una persona esistita.


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L'intervista a Larrain

Ci sono tante versioni di Jackie Kennedy fornite da cinema e tv. La sua è molto personale. Da dove viene? Cosa ha capito di lei nel documentarsi?
"Era una donna sofisticata e misteriosa, che mi pare la cosa più interessante di tutte, perché il cinema è mistero. A prima vista può sembrare superficiale, preoccupata di vestiti, mobili e design, ma entrando dentro la sua vita vedi una persona brillante con un gran senso e fiuto politico, una che ha ricevuto un'ottima educazione e che parlava 4 lingue tra cui uno spagnolo perfetto. Ho letto tonnellate di biografie e articoli, ho visto trasmissioni tv e film, ho anche ascoltato l'intervista che rilasciò ad Arthur Schlensiger. Da quelle registrazioni abbiamo preso il suo modo di parlare molto calmo e rilassato. Eppure dopo tutta questa ricerca io davvero non so chi fosse. Non pretendo di spiegare nulla con il film, era così: misteriosa. Penso che questa sia la chiave del film".

Jackie è il suo primo film con protagonista femminile...
"Sì, l'unico su 7. Per la prima volta mi soffermo sugli occhi di una donna. Nella fase di preparazione ho parlato molto con mia madre o con altre persone che hanno vissuto da spettatori quegli anni. Ma solo donne. Volevo catturare il lato femminile di tutta la storia. Anche per questo ho chiamato una donna, Mica Levi, a comporre le musiche".

Come mai proprio con Jackie Kennedy?
"Non sono americano e non lo sarò mai, non sono patriottico, al massimo posso esserlo per la mia gente e la mia bandiera. Quindi il mio approccio al film non è quello lì, mi interessa solo una donna incredibile che ha dovuto passare attraverso circostanze pazzesche. Per fortuna ho avuto Natalie Portman, un'attrice capace di tenere un livello di concentrazione altissimo su qualcosa che non puoi recitare o riprendere, cioè l'atmosfera. Quando giri un film con qualcuno di così noto come Natalie e lo fai su un personaggio così noto come Jackie Kennedy, devi trovare la maniera di creare un bilanciamento per essere credibile, devi lentamente arrivare a che lo spettatore smetta di vedere l'attrice e inizi a vedere il personaggio. Ho avuto il medesimo problema con Neruda".


Guardando Jackie assieme al suo film precedente, Neruda, sembra sia sulla distruzione del potere e questo invece sulla sua costruzione...
"Penso tu abbia ragione ma sono periodi diversi. Neruda va dal 1947 al 1949, era finita la guerra e i comunisti erano vivi, molto vivi. Erano 10 anni prima della rivoluzione cubana, il periodo in cui Che Guevara girava in motocicletta come nel film con Gael Garcia Bernal, mentre Fidel stava studiando. Neruda viene prima di tutto, la sua storia finisce con Allende che diventa presidente e Neruda che gli dice "Fallo te", poi il colpo di Pinochet e la morte di Neruda tre settimane dopo. Insomma era gente che credeva che quel sogno fosse possibile. Dall'altra parte in Jackie ci sono persone che combattevano contro i comunisti, avevano problemi con Castro e la Baia dei Porci, erano nel mezzo della guerra fredda, sono due schieramenti diversi ma entrambi con un sogno. E io credo che per quanto il comunismo ad un certo punto non ce l'abbia fatta, questo mondo necessitasse quelle idee, perché noi potessimo imparare da quegli ideali".

Ti sei sicuramente documentato molto per il film ma quanto questo ha poi influito nella scrittura? Qual è stato il bilanciamento che hai trovato con la finzione?
"Quello della raccolta di informazioni è stato un processo davvero accurato ma penso che il cinema che tratta di persone realmente esistite vada fatto con libertà e rispetto. Non voglio insegnare niente, nè cambiare la storia, voglio fare un film umano, bello e che esprima una sensibilità. Non faccio film per le scuole, se poi ci finiscono va bene ma non è quella la mia intenzione. So che No - I giorni dell'arcobaleno è stato usato in corsi di comunicazione o scienze politiche, ma a me non interessa. Odio gli insegnanti e non amo nemmeno i critici, perché cercano di insegnare alla gente, perché vogliono educare. Ricordo una recensione cilena su Neruda che iniziava con "Primo: le cose buone del film..." l'ho chiusa subito. Sono già stato a scuola ed è così noioso...".


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