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At the End of the Day, giochiamo alla guerra?

Cosimo Alemà, dal mondo dei videoclip alle oscure foreste dell'horror.
di Edoardo Becattini


giovedì 14 luglio 2011 - Incontri

Per il suo esordio nel mondo del cinema, Cosimo Alemà, il regista più richiesto dalle popstar italiane (Tiziano Ferro, Zero Assoluto, Fabri Fibra e moltissimi altri), sceglie di cominciare dalla fine. Dalla fine del giorno, per l'esattezza: quello che vede coinvolti Lara, sua sorella Monica e altri cinque amici all'interno di un bosco dove andare a giocare alla guerra secondo le regole del softair, la simulazione militare con armi ad aria compressa.
Date queste premesse, è abbastanza facile intuire come in At the end of the day l'allegria e la finzione del gioco lascino presto il campo per la realtà e l'orrore di un incubo fatto di militari impazziti, vere armi e molti spargimenti di sangue. E tuttavia, nelle sue stesse dichiarazioni, Alemà definisce questo suo primo approccio al mondo del cinema non come quello di “un autore che cerca di fare il film della vita”, ma molto più semplicemente come una nuova palestra per sperimentare uno stile visivo all'interno delle rigide schematizzazioni di un genere. Anche se non appassionato di horror (“preferisco i thriller o i drama”), Alemà si approccia così a una storia terrificante che rievoca i fantasmi bellicosi della vicina zona balcanica con lo sguardo di un giovane cineasta che fa del ritmo visivo e dell'uso rapido di fuochi e movimenti di macchina la sua cifra stilistica. Oltre alla peculiarità di essere girato in digitale e in piena luce del sole, At the end of the day condivide con i recenti Shadow, Imago Mortis e Smile, la riscoperta vocazione internazionale dell'horror all'italiana. Distribuito in Italia dalla Bolero Film, l'opera prima di Alemà è già stata venduta infatti in tutto il mondo: dal Canada all'Australia, dagli Stati Uniti al Giappone.

Al di là delle collocazioni storiche, come mai mettere assieme il softair con la pericolosità delle armi e della guerra?
Cosimo Alemà: Il film ha avuto una genesi un po' particolare. In realtà l'idea ci è venuta mentre giravamo un videoclip per Le Vibrazioni in cui c'erano dei ragazzi che praticavano il softair. Ai tempi non conoscevo queste pratiche di simulazione di guerra e rimasi molto colpito da come si muovevano quei ragazzi. Erano super-attrezzati, iper-tecnologizzati e anche se si sparavano fra loro solo con armi giocattolo, si atteggiavano da veri soldati. La prima idea quindi riguardava mettere assieme finti soldati con armi giocattolo e pazzi bifolchi con armi vere alla mano, così da creare un confronto e stimolare delle riflessioni sul “giocare” alla guerra. Da lì sono partite poi molte ricerche e ci siamo imbattuti in vari episodi avvenuti durante le guerre nei Balcani che sembravano molto vicini alle idee del nostro racconto. Con gli sceneggiatori ci siamo lasciati ispirare liberamente da quei fatti e abbiamo cercato di fondere assieme le suggestioni del genere con vari elementi presi dalla realtà come ex-militari e cacciatori impazziti o vecchie basi militari utilizzate per la pulizia etnica.
Daniele Persica (sceneggiatore): L'idea era dimostrare che una volta che un'arma è stata innescata, difficilmente non sparerà, così come ogni mina che viene sepolta, prima o poi salterà in aria. A parte la collocazione geografica e temporale, che comunque abbiamo voluto mantenere più ambigua possibile, questa è l'idea di base del film: la guerra non si può disinnescare.
Cosimo Alemà: Siamo effettivamente in un non-luogo. Non volevamo dare alcun riferimento temporale né geografico. Siamo in un luogo che può essere dovunque. Alcuni indizi ci fanno capire che è più probabile sia il centro-Europa, piuttosto che gli Stati Uniti. Ma c'era una precisa idea di non essere precisi in questo senso.

Come mai lavorare all'interno dell'immaginario americano degli anni Settanta, rifacendosi a film come Un tranquillo week-end di paura o I guerrieri della palude silenziosa?
Cosimo Alemà: Un tranquillo week-end di paura è stato sicuramente una delle ispirazioni principali per la sceneggiatura. Tuttavia, non dal punto di vista del senso del film. Un tranquillo week-end di paura era molto più incentrato sul non disturbare la natura e sull'opposizione natura-cultura. In questo caso la riflessione è più incentrata sulla metafora del giocare alla guerra. Nelle nostre volontà, c'era l'idea di raccontare in modo realistico e poco “americano”, quindi poco consolatorio, il “gioco” della guerra, mantenendo l'unità di tempo e di luogo a pochissime ore passate tutte sotto la luce del sole.

Perché girare in inglese?
Cosimo Alemà: Volevamo fare un film che non fosse solo per l'Italia, che potesse essere visto e apprezzato da noi ma non fermarsi entro i nostri confini. Per questo stesso motivo non ci sono attori italiani nel film, ma abbiamo deciso di chiamare a recitare un cast di soli attori madrelingua inglese. È una scelta di cui siamo contenti, perché ha permesso al film di essere visto e distribuito in tutto il mondo. Mi dispiace solo che da noi non si possa apprezzare le voci originali e che il doppiaggio ponga una sorta di filtro più pulito al linguaggio del film, ma sono comunque piuttosto contento che le voci italiane siano molto simili a quelle originali.

A questo proposito, dove avete trovato “lo Zio”, ovvero l'attore Michael Lutz?
Romana Meggiolaro (sceneggiatrice): Gli abbiamo fatto un provino a Londra durante i casting e inizialmente non capivamo se fosse molto bravo o molto pazzo. Ad ogni modo, a Cosimo piacque moltissimo il suo provino, tanto che fu una delle sue prime scelte per il ruolo del cattivo del film. Lavorando sul set, si è rivelato una persona squisita e molto professionale, pronta a fare una vita da selvaggio per il personaggio. È forse la persona che ha creduto più di tutti gli altri attori al progetto. Al termine delle riprese, non voleva più morire. Ci ha proposto di lasciarlo vivere per poter un giorno girare un sequel...

Come hai vissuto il passaggio dal linguaggio dei videoclip a quello per il cinema?
Cosimo Alemà: Con i video si tende per forza di cose ad avere un approccio molto versatile. Il linguaggio della pubblicità e dei video musicali è davvero un'ottima palestra per provare tantissime tecniche e stili differenti. Nel momento in cui si è trattato di pensare a come girare un film, mi sono mantenuto vicino a questo approccio. In realtà non sono un grande amante dell'horror, lo sono molto di più del drama o del thriller. Tuttavia, non mi considero un autore e, forte di questa consapevolezza, ho deciso di lanciarmi nelle convenzioni del genere mantenendo un mio stile e il desiderio di poter sperimentare. Abbiamo girato tutto in digitale, con una macchina RED, che è oggi uno degli standard più utilizzati anche a Hollywood. Il digitale ti permette di lavorare più sui colori e sugli effetti della fotografia, ma a parte queste peculiarità ho utilizzato comunque un mio stile, come l'uso della macchina a mano o i cambiamenti di fuoco repentini. Anche il lavoro sul sonoro è stato molto importante: è stato fatto un lavoro molto accurato sul sound design e utilizzato musiche in parte cupe e in parte dolci che creassero un buon contrasto con le scene più dure e angosciose del film. Per quanto riguarda il futuro, non abbandonerò certo i videoclip e la pubblicità, ma conto anche di cominciare presto il mio prossimo film. So già che sarà ancora una volta un thriller, ma stavolta molto più orientato verso il drama anziché sull'horror. Mi piacerebbe fosse un thriller metropolitano.

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