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Storia "poconormale" del cinema: puntata 120

Una rilettura non convenzionale della storia del cinema. Di Pino Farinotti.
di Pino Farinotti


venerdì 24 giugno 2011 - Focus

I grandi titoli
Gli anni Cinquanta erano dunque stati un decennio di progetto con un'identità non del tutto ma abbastanza univoca: la ricostruzione. La parabola terminava con un suggello importante, La dolce vita appunto, titolo spina dorsale del cinema nostro e di tutti. Fellini evocava un'evoluzione generale dell'arte e del costume. Cercavamo, come Paese, un'emancipazione che ci ponesse sul piano delle grandi nazioni occidentali. I Sessanta sarebbero stati anni di assestamento, di punto d'arrivo di cultura e di benessere. Non è questo il contesto, e lo spazio, per un'analisi sociologica, culturale o generale di quell'epoca. Comunque c'è un lemma dal quale partire, che sintetizza quei momenti, in tutti i segmenti, la cultura, il sociale, la politica. Soprattutto la gente. Trattasi del boom economico. Sopra parlavo di evoluzione, che naturalmente c'era stata, grazie all'azione dei governi e agli aiuti degli Usa. E, soprattutto, mi ripeto, grazie alla gente. Così si era davvero intravisto il boom. Intravisto, appunto, perché forse il boom vero, reale, concreto, attivo, non c'è mai stato. Diciamo che comunque era una buona imitazione.

Tramonto
Quando nei primi anni Sessanta il boom, vero o presunto, segnala il proprio tramonto ne derivano le inevitabili tensioni sociali. La speranza, tanto accarezzata, andava delusa. Questo contesto liquido, aperto, favoriva iniziative culturali che mostravano un buon abbrivio, ma che alla fine risolvono pochissimo. I nomi più in vista di quella cultura, parlo di scrittura, sono quelli di Vittoriani e Calvino, di Moravia e di Pasolini. Ma è la cosiddetta punta dell'iceberg, ce ne sono molti altri. I movimenti si chiamano Neosperimentalismo (Pasolini) e Neoavanguardia (Vittorini). La loro missione sarebbe quella di rielaborare un linguaggio artistico che si distacchi dalla tradizione formale, per evolversi verso una forma composta, magari caotica, che comunque rispecchi la realtà. Certo "intelligenti", come lo erano quei profeti, ma comunque astrazioni. Poco o nulla di accreditato, poco o nulla che sia rimasto.

Capire
Invece, questa volta, è il cinema a capire meglio e di più. A capire la gente. Nel 1963 si compone un gruppetto formato da Vittorio De Sica regista, Dino De Laurentiis produttore, Cesare Zavattini scrittore, Alberto Sordi attore. Tutta gente che... capiva. Ne esce Il Boom, un film che è un'istantanea perfetta, impietosa ed eterna di quel momento. Non ci sono trattati, o libri, o accademie, che sappiano rappresentare meglio di questo film il contenitore generale di quegli anni. Come spiega la recensione.
"Roma, primi anni Sessanta. Giovanni Alberti cerca di fare l'imprenditore edile senza avere capitali, e si trova in grandi difficoltà. I suoi amici sono tutti costruttori e hanno un tenore di vita che Giovanni non può sostenere. Quando chiede prestiti gli altri fanno orecchie da mercante. Giovanni deve ridimensionarsi e la moglie, abituata all'agiatezza, non capisce, in sostanza lo lascia. Giovanni incontra la moglie, non giovane, di un grande costruttore. Questa, ammiccante, gli dà un appuntamento. Ma la ragione non è quella che Giovanni immaginava: la donna gli chiede se sarebbe disposto a vendere un occhio al marito, che lo aveva perso in un incidente. Giovanni dapprima è furioso, ma poi capisce di non aver altra scelta. Con l'anticipo dei duecento milioni pattuiti dà una grande festa, per l'invidia di tutti, e sana i suoi debiti. La moglie torna a casa e tutto va a posto. Adesso però c'è da vendere l'occhio. In clinica Giovanni è terrorizzato, cerca di scappare ma viene ripreso. Non potrà proprio sottrarsi. Il film ebbe allora critiche pessime. Bastava che una storia dispensasse qualche sorriso perché venisse ritenuta di serie B. Era il dramma del povero Totò. Il Boom è del 1963, che fu proprio l'anno fondamentale del miracolo economico italiano (del "boom" appunto), e De Sica fece un ritratto che risulta geniale soprattutto a posteriori, quando sappiamo che quella stagione era soprattutto una speranza se non un abbaglio. La vicenda individuale di Alberto Sordi era come sempre la storia della speranza di un italiano. Del resto è proprio con ruoli come questo che l'attore è diventato l'"Albertone nazionale", l'"Italiano medio", il "più italiano degli italiani". Noi riteniamo che nessun film come questo rappresenti quei sentimenti e quella confusione. Tutto questo con in più l'effetto De Sica, maestro assoluto, conoscitore della gente come nessuno e con l'effetto Sordi, nel momento migliore della sua carriera. E poi c'è la Roma dei ministeri. Dunque De Sica non era solo di Ladri di biciclette e di Sciuscià, ma anche una voce determinante nella stagione successiva, quella dei grandi "commedianti" come Risi, Comencini e Monicelli. Le canzoni dell'epoca, le trattorie romane, i ritrovi di quella borghesia, i discorsi di miliardi: rivalutiamo un film che è una grande testimonianza".

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