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Il Quijote di Mimmo Paladino

Il film di uno dei più grandi artisti italiani. Di Pino Farinotti.
di Pino Farinotti

In foto Mimmo Paladino con Pino Farinotti

lunedì 4 aprile 2011 - Focus

Non sono un fautore del sincretismo artistico. Ritengo che uno scrittore debba scrivere e un pittore dipingere. E che un regista debba fare i film. Quest'ultima frase la estendo: molti film, soprattutto italiani sono penalizzati da registi che vogliono scrivere e non ne sono capaci. Detto, in termini semplici, il concetto; naturalmente ci sono le eccezioni. Mimmo Paladino, artista, ha diretto un film, Quijote, lo ha diretto a suo modo. "A modo" di Paladino significa molto. L'artista si definisce "pittore", ma la definizione è davvero riduttiva. Paladino è uno dei fondatori della cosiddetta Transavanguardia, insieme a Chia, Cucchi, Clemente e De Maria. Il movimento seguiva le correnti, minimale, poi concettuale, che avevano del tutto cancellato il figurativo. Un modello esemplare può essere Giulio Paolini, con la sua "tela bianca", cioè il niente, la fine e il principio. Nel 1977 Paladino decise che fosse il momento di recuperare qualcosa, magari la cosa più naturale, il disegno. In quell'anno compose un'opera che fa parte della storia della pittura. Il titolo: "Silenzioso, mi ritiro a dipingere un quadro", che viene storicamente considerato il simbolo del recupero, da parte degli artisti, della pittura dopo la stagione concettuale detta sopra. L'evoluzione sorpassa il disegno e porta Paladino a domare tutte le materie e tutte le tecniche. Pittura, scultura, incisione, scenografia. Discipline che impugna e ricompone in una sola formula. Che certo gli ha portato fortuna, perché le sue opere fanno parte dei più grandi musei del mondo, delle collezioni private più prestigiose e sono istallazioni permanenti nelle piazze di molte città.

Summa
È legittimo dire che il film Quijote (Chisciotte) sia la summa dell'arte di Paladino. L'"opera per l'umanità" di Cervantes non ha avuto fortuna al cinema. Ci hanno provato i tedeschi nel 1933, con un maestro, Pabst; poi i russi nel '57 con Kozinev; gli americani nel '72, con Hiller, con un certo sforzo produttivo e col divo Peter O' Toole. Nessuna di queste opere è memorabile, tutt'altro. E poi naturalmente la leggenda Orson Welles. Il "genio" lavorò sull'opera di Cervantes per quattordici anni, e non ne venne a capo. Esiste una versione rimontata dallo spagnolo Jess Franco. Cervantes è uno degli autori che si scrollano di dosso la pellicola. L'avventura dell'"ingenioso hidalgo" che sogna di raddrizzare i torti parlando e parlando, e muovendosi a cavallo come un eroe antico (più antico di lui), non ha la chimica per il cinema. A volte succede che la letteratura, quella più alta, quella che si identifica solo con se stessa e la propria nobiltà, non voglia essere "filmata", appunto.
Di tutto questo ho parlato con Mimmo Paladino, ai piedi della sua strepitosa istallazione, la montagna di sale che occupa quasi tutto lo spazio, ed è vasto, davanti a Palazzo Reale di Milano. Ed è parte della mostra che la città gli dedica. Alcune fra le più vaste stanze del "Reale" contengono le sue opere fondamentali e l'Ottagono in Galleria è occupato dall'aereo trattato alla Paladino, l'opera si chiama "Cacciatore di stelle".

Sannio
Il film parte dalle filastrocche dei Pupi, il teatro non è la Mancia ma il Sannio, cioè Paduli, Benevento, dove l'artista è nato. E non c'era bisogno di ricostruzioni in cartapesta, la scenografia è quella naturale delle opere, disseminate fra le rocce e fra i prati. Paladino assume l'idea generale della poetica di Cervantes, non ha bisogno di aderire a niente. Non intende adattare il cinema alla carta. Qijiote è un simbolo trasversale nel tempo: agli albori del Seicento Cervantes soffriva il passaggio da una cultura umana e felice come il Rinascimento verso un futuro nebuloso senza una sostanza promessa. Voleva opporsi alla crisi ineluttabile e allora sognava in grande: avrebbe sistemato tutto lui, e sarebbe approdato sull'isola felice col suo scudiero Sancho. Paladino cerca di dare le sue indicazioni. E certo non è felice, perché gli sbocchi, nella nostra epoca sono... nebulosi. Così si consegna a ciò che più lo tutela, il suo mestiere composito. E spera che chi assiste, a sua volta si faccia tutelare. E si affida ad artisti e testi affidabili, e secondo la meccanica di concetto-che-richiama- concetto, ecco inseriti due endecasillabi che arrivano da un altro contenitore: "L'Orlando furioso: Le donne i cavalier l'arme gli amori/ Le cortesie l'audaci imprese io canto". Fra queste licenze d'arte, Paladino ricorre a certi suoi amici, "artisti attori", come l'omologo compagno di corrente Enzo Cucchi, che fa mago Merlino, o il poeta scrittore Edoardo Sanguineti, che fa se stesso. Quijote è Peppe Servillo, e Sancho è Lucio Dalla. Digressione: Servillo certo ricorda il Reigueira, ma Dalla è praticamente il clone di Tamiroff. Sono quelli di Welles.

Improprio
Un sincretismo, ribadisco, dove è improprio cercare di capire, inutile scrutare logiche drammaturgiche, o codici che vengono subito disattesi. Tutto si moltiplica con Paladino, perché ogni materiale, ogni registro, ogni visione, ne richiama altri e sono tali e tanti che si rilanciano esponenzialmente e diventano infiniti e magari connessi, ma senza logica accreditata, e sono veloci come le mani e il pensiero dell'artista, complessi, sfuggenti e allarmanti come "La Veglia di Finnegan". Sono i codici di Paladino: stravolgono, ma lui può permetterselo. Spade che si incrociano combattendo, e nessuno le impugna, espulse in alto oltre mura di architettura sconosciuta. Chisciotte che attende sulla sponda del fiume mentre l'acqua porta un triste corpo di legno. E il linguaggio di Sancho lo scudiero, che non arriva dalla gola, non dallo stomaco, non dalla memoria o dai tempi, né dalla cultura. Non sono neologismi, ma un getto antropologico, scovato da un inventore che conosce quegli stili e quell'armonia violenta, Lucio Dalla. Mentre l'hidalgo della Mancia, intermittente, passa lento in controluce, con la luna là in fondo, col suo scudo e la sua lancia, inutili come lui.

Citazioni
E poi, naturalmente il Cinema. Stralcio due citazioni eroiche. Miracolo a Milano, dove Totò l'angelo matto e povero se ne va in cielo cavalcando una scopa. Me lo dice lo stesso Paladino: "La mia collina di sale sarebbe anche una citazione di quel film di De Sica. L'idea era di costruirla proprio al centro del sagrato, da dove parte Totò. Sarebbe stata più larga di otto metri e più alta di tre. Non si è potuto."
Remo Girone assomiglia, in modo inquietante, alla morte pallida, nel mantello nero, di Bergman. Paladino approfondisce la citazione. "Come sapevi che gioco a scacchi?" "Ti ho visto nei quadri, l'ho letto nei libri". E il regista estende il dialogo di Bergman (licenza coraggiosa e non semplice) secondo le proprie intenzioni.

Così il cavaliere antico Paladino "gira" un'opera onnicomprensiva. Ma lui ha tanto pensato e operato. Si è guadagnato la nostra visione. Attenta.

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