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La terra degli uomini rossi mette d'accordo critica e pubblico

Marco Bechis e il cast indios al completo presentano il film al Festival di Venezia.
di Désirée Colapietro Petrini


martedì 2 settembre 2008 - Incontri

Il film Accolto da lunghi applausi la mattina e da altrettanto entusiasmo alla proiezione delle 19:30 in Sala Grande, Birdwatchers, La terra degli uomini rossi di Marco Bechis, terzo film italiano presentato in concorso alla Mostra del Cinema, che verrà distribuito da 01 Distribution, è stata l'unica pellicola a mettere d'accordo critica e pubblico. A Venezia con il cast indios Guaranì-Kaiowà al completo, assoluti protagonisti di un film che ritaglia una parte minore agli italiani Claudio Santamaria e alla collega Chiara Caselli (ignorati in conferenza stampa), Bechis ha raccontato di avere voluto portare questa storia sul grande schermo per un suo personale interesse nei confronti delle popolazioni indigene: "Mi sono rivolto all'associazione Survival International che mi ha indirizzato a questa tribù in lotta. Il film nasce dall'incontro con il loro capo. Apparentemente non sono più indigeni, vestono come noi. Ma tornano nelle loro terre, nonostante il disboscamento, a dimostrazione che la loro cultura è rimasta intatta. Ho speranza in loro: hanno una chiara idea di come si sta su questa terra. Loro sono "gli altri", in Italia "l'altro" fa paura. Ma se non c'è scambio e curiosità, non c'è più vita per noi".

La realtà degli indios
Di giustizia ha parlato Ambrosio Vilhava, capo Guaranì nella realtà e nella finzione: "Non c'è giustizia per noi come per i neri, i poveri, c'è solo per gli imprenditori e i ricchi che hanno senatori e governatori a difenderli". Con la voce strozzata dalla commozione, una delle attrici indigene presenti ha aggiunto: "Siamo esseri umani, abbiamo cultura, arte e lingua. Abbiamo imparato da voi come mangiare e vestirci, a portarvi rispetto e vorremmo da voi altrettanta attenzione". La realtà fotografata da Bechis, sei anni dopo quella di Hijos-Figli in cui affrontava il tema dei desaparecidos aregentini, corrisponde a verità: costretti a vivere sul ciglio della strada e ad essere preda di quei turisti che praticano il birdwatching nel paradiso naturale dell'Amazzonia, gli indios di quella zona meno conosciuta del Brasile furono tra i primi popoli che si scontrarono con gli europei durante la colonizzazione e continuano oggi a essere vittime delle invasioni delle loro terre. Con estrema precisione e fedeltà hanno contribuito, con i loro racconti, alla scrittura di una sceneggiatura mirata a riportare sul grande schermo un film che non fosse né documentario né finzione quanto piuttosto una denuncia. "Come sceneggiatore ho semplificato, cercato l'essenziale. Come regista ho rinunciato ad ogni forma di controllo, lasciandomi guidare all'improvvisazione". Pur non essendo attori, la recitazione degli indios è autentica e incisiva. "Quello che si vede sullo schermo è la verità", hanno precisato. "Adesso stiamo cercando uno spazio di sopravvivenza. I brasiliani ci considerano solo quando si parla dei suicidi". "Negli ultimi venti anni oltre 500 Guaranì si sono suicidati per protesta contro i fazenderos che occupano le loro terre", ha spiegato il regista. "Il Brasile è l'unico stato sudamericano a non riconoscere i diritti degli indiani alla proprietà della terra nonostante siano sanciti dalle leggi internazionali. È necessario, per la loro sopravvivenza, che il governo britannico riconosca tutti i loro diritti territoriali". L'urlo di uno di loro, nella scena finale del film, è emblematico di quanta rabbia portano dentro di sé. E non c'è sensazione peggiore di gridare e non essere ascoltati.

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