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30 giorni di buio e alcuni caratteri dell'horror contemporaneo

Il fumetto di Steve Niles e Ben Templesmith diventa un film.
di Matteo Treleani

Il film

martedì 5 febbraio 2008 - Approfondimenti

Il film
Un Hitchcock dei nostri giorni: così ha definito 30 giorni di buio Melissa George, ancora in fase di lavorazione, suggerendo a David Slade, già autore dell'originale Hard Candy, un approccio tipico al thriller. Il fumetto scritto da Steve Niles e disegnato da Ben Templesmith era stato accolto con calore dalla critica per il suo sguardo innovativo sui vampiri. Slade ne adotta quindi l'estetica, giocando con lo spettatore grazie ad alcune sequenze, quale lo straordinario plongé verticale che mostra il villaggio devastato dopo l'attacco. Ambientato in Alaska, in uno di quei punti del mondo dove la notte d'inverno dura un mese, 30 giorni di buio presenta una situazione inedita, dove i vampiri agiscono nel loro mondo naturale, mentre gli umani, nelle tenebre e in una natura ostile, sono costretti a eclissarsi.
L'oscurità in 30 giorni di buio ha dunque una finalità inversa al comune. Il buio non serve a nascondere, ma a mostrare il nemico. È grazie alla notte perenne che i vampiri possono invadere il villaggio liberamente.

L'esibizione dell'orrore
Pare uno dei caratteri significativi dell'horror contemporaneo, quello del far vedere. Che si tratti dei vampiri fumettistici di 30 giorni di buio o della ben più preoccupante violenza di Saw IV, invece di centellinarlo, l'orrore è esibito. Hitchcock insegnava l'importanza del fuori campo e il suo valore differenziale rispetto al campo. Ciò che non si vede può produrre il terrore e la tensione, proprio perché ignoto, inatteso o atteso troppo a lungo. Nell'horror contemporaneo si direbbe che l'orrore diventi non più il mezzo ma il fine dell'opera, al punto che i vampiri di 30 giorni di buio appaiono sullo schermo dopo poche decine di minuti di pellicola, rendendosi perfettamente visibili. Vampiri che diventano dunque il perno del racconto, nella loro comunque originale caratterizzazione estetica. Persino un remake riuscito, come l'Halloween di Rob Zombie, ha la preoccupazione di mettere in scena ciò che Carpenter non aveva sentito il bisogno di fare: la vita del mostro, di ciò che doveva restare non-detto, appunto perché è l'ignoto che generalmente si teme.

Accumulazione e ripetizione Due figure sono efficaci a descrivere la situazione dell'horror contemporaneo: quelle dell'accumulazione e della ripetizione. Ripetizione perché evidentemente a corto di idee, il genere punta sul remake (The Fog, Le colline hanno gli occhi, Non aprite quella porta) o sul seriale che nei seguiti vede una grande fonte di reddito (Saw, Hostel, Alien vs. Predator) o ancora sugli adattamenti dai mezzi più disparati (il videogioco: Resident Evil: Extinction o il fumetto: 30 giorni di buio appunto). Accumulazione perché incapace, forse volutamente, di costruire l'interesse e la tensione attorno a un'idea narrativa, l'horror ammassa carcasse di corpi e di sangue, con mutilazioni dettagliate. Non è un caso che un effetto meta-critico l'abbia avuto in Francia la campagna pubblicitaria dell'appena uscito, Frontier(s), che urla da spot e manifesti: «Questo film accumula scene di macelleria particolarmente realistiche e provanti».

Una visione assuefatta alla violenza Nel momento in cui la realtà supera (o imita) la finzione, il genere che più puntava sul poter inscenare un orrore irreale, sembra arenarsi in un circolo vizioso. La capacità di riprodurre il reale dei mezzi di comunicazione (come mostrano Cloverfield e il De Palma di Redacted) ha assuefatto i nostri sguardi alla visione della violenza. Ora, l'horror ha la scelta di concorrere con il reale, in una battaglia persa in partenza, tentando di superarne la carica orrorifica in un accumulo di macelleria; oppure di agire su altri fronti, affrontando la quotidianità in maniera indiretta. Diciamolo, da entrambe le parti il cinema ha saputo comunque offrire spunti interessanti: The Descent di Neil Marshall o Le colline hanno gli occhi di Alexandre Aja agivano sull'estremizzazione, più che della violenza, della carica distruttiva dei personaggi. Mostrando un accumulo significativo nella stessa ripetizione di schemi già visti.

Il terrore viene da Est
D'altra parte però, è a Oriente che si deve cercare l'eccellenza dell'orrore contemporaneo. Il Giappone ha saputo reinventare il genere attraverso alcuni autori che hanno sia messo in dubbio i limiti del guardabile (Miike Takashi e il disturbante Imprint) sia cercato nel mito il tema per interpretare il reale, nascondendo la fonte dell'orrore e lasciando agire il buio, il silenzio e il non detto. Spesso celato dietro il volto coperto di una bambina e senza una sola goccia di sangue versata (Hideo Nakata o Kyoshi Kurosawa), il cinema giapponese racconta l'orrore attraverso storie di fantasmi tratte dalla tradizione. Che si ripetono però in un mondo di cellulari (Phone), di vite virtuali (l'apocalittico Pulse di Kurosawa) dove è una catena di Sant'Antonio, tipica degli spam, a dare inizio alle maledizioni (The Ring) e le telecamere a circuito chiuso sono spesso l'unica fonte affidabile di verità (vedi la telecamera dell'ascensore nel magnifico Dark Water di Nakata). Il cosiddetto J-Horror ha un'indubbia carica esotica mescolata con l'osservazione delle tecnologie contemporanee.
A Hollywood, d'altronde, se ne sono resi conto rapidamente, e per tutta risposta, invece di assumerne l'originalità estetica, ne hanno prodotto dei remake.

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