Le prime immagini (oggetti galleggianti nell’acqua, ma in una stanza) ricordano certi quadri surrealisti di Dalì o Magritte. Portano con sé due indizi: un’intenzione non realistica del regista, e l’enfasi posta sull’acqua, che sarà in effetti uno dei fili rossi della storia (assieme alle uova: entrambi simboli di vita).
Segue una sequenza di ambientazione, apparentemente realistica. Siamo in un monolocale piuttosto cupo, anche se “riscaldato” dall’abbondanza del legno nell’arredo, in cui vive sola la protagonista: Eliza, una giovane muta (ma non sorda) che ricorda un po’ l’Amelie persa nel suo mondo favoloso. Eliza è metodica: al suono della sveglia, si leva dal canapè su cui dorme (non avendo letto), cuoce le uova, fa il bagno in vasca, spazzola le scarpe. Prima di andare al lavoro, porta un piatto al suo vicino, un pittore omosessuale, fallito, trasandato e solo, che vive tra quadri mai venduti, gatti, musica e TV (apparecchi rigorosamente in legno, e segnali del tempo: siamo negli anni ’50).
Eliza fa pulizie, in coppia con l’estroversa Zelda, amica di lunga data, generosa donna nera. Lavorano in un laboratorio sotterraneo e cupo, reso con un sonoro sempre sopra le righe e con colori freddi, verdastri. Fino a che non irrompe violentemente il rosso sangue (sarà in scena più volte: le persone sensibili sono avvisate): il cattivo della storia, che più cattivo non si può (tipizzato fino alla caricatura, specie nel suo divorare assiduamente pasticche di ogni tipo), è stato aggredito e ferito da una specie di uomo-pesce, arrivato segretamente dall’Amazzonia (dove era considerato un dio) e tenuto in cattività. E’ nel mirino della CIA e del KGB, perché gli anni ’50 sono il clou della Guerra fredda. E qui si apre anche una spy story.
Ma quello che per gli uomini di potere è un mostro pericoloso con le squame e gli artigli, per Eliza è solo una creatura sola e abbandonata, come lei, essendo cresciuta in brefotrofio. Le persone emarginate si annusano e si riconoscono subito: e spesso si aiutano per soddisfare i bisogni primari e fisici (la fame, soddisfatta, nel caso del “mostro” dalle uova sode di Eliza) e anche quelli spirituali (l’armonia della musica, l’amicizia, l’amore).
La mostruosità di superficie è solo un’altra forma di diversità, come avere la pelle nera, essere gay o povero, non poter parlare. Ed è così che la muta, la nera, il gay stringono una catena solidale, nel tentativo di ridare libertà all’uomo-pesce, riportandolo nell’Oceano. Ma non avremo un finale lieto e rassicurante come nella favola della Bella e la Bestia…
Il film ha un ritmo serrato, è avvincente, seduce per le atmosfere degli interni, stile anni ’50, e per il messaggio etico di cui è portatore: pietas, solidarietà e amore che sconfiggono, almeno in parte, l’ambizione sfrenata, la logica del potere, la violenza e il sadismo.
Resta difficile ricondurlo a uno o più generi definiti: vive, anzi, della contaminazione di generi e non disdegna gli effetti forti (il sangue, le torture, un sonoro che fa spesso sobbalzare sulla poltrona). Ma questi che potrebbero apparire dei difetti per alcuni spettatori, per sovraccarico di segnali, per altri possono risultare funzionali al messaggio. Grande interpretazione degli attori, specie di Sally Hawkins e Octavia Spencer.
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