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Certi film ti stregano per le atmosfere, specie se suscitano echi di un vissuto. Sono stata a Irishmore, in anni felici. Qui, in parte, è stato ambientato il film Gli spiriti dell’isola (nome di fantasia), stesso regista di Tre manifesti a Ebbing. L’emozione di ritrovare quei paesaggi, piatti per linee, ma mossi dal vento, dalle nuvole, dai chiaroscuri, dagli orizzonti marini, mi avvince e prevale sul piacere di rivedere un regista stimato. Noto un’analogia tra i due film: in entrambi un paesaggio incontaminato, dove la gente potrebbe vivere in pace (sia pure in solitudine), ma dove si scatenano invece pulsioni irrazionali e violente.
In quest’isola irlandese viene analizzato al microscopio un fenomeno psicologico ed esistenziale, prima ancora che sociopolitico (i fuochi della guerra civile sulla terraferma sottolineano il legame tra le due cose): la rottura di una relazione, in questo caso amicale, ma potrebbe essere amorosa o di altra natura, e i devastanti effetti che ne conseguono. Le ragioni dell’incrinatura di un vecchio rapporto possono essere banali (nella fattispecie: trovare improvvisamente noioso il compagno di bevute al pub), ma nel soggetto che colpito dall’ostracismo si sgretolano equilibri e percezioni di identità.
Così, Padraic, l’amico ripudiato, che si vedeva (ed era) uomo mite, buono, gentile, è assalito dal dubbio di essere stupido e insignificante, oltre ad avvertire fortemente il dolore della solitudine. Cerca di riallacciare i rapporti con l’amico Colm, che ha deciso di tagliare i ponti con lui per dedicarsi al violino, ma incontra una drastica chiusura, una reazione simile a quella di un ex amante, vittima di persecuzioni ossessive. Anzi, ancor più crudele, perché accompagnata da minacce di feroce autolesionismo (che poi diventeranno realtà, con scene eccessivamente insistite, tanto che ho dovuto chiudere gli occhi troppo a lungo…).
Tanto più Brendam si irrigidisce, tanto più Padraic cambia e incrudelisce a sua volta, mangiandosi la sua umanità, per vendicarsi del dolore e delle umiliazioni che ha subito dall’amico di un tempo. È così, vuole forse suggerire il regista, che nascono i post-relazione tragici, i conflitti individuali e collettivi, le guerre, come quella che divampa un braccio di mare più in là.
Soprassedendo sulle scene “splotter”, che personalmente non apprezzo mai, il racconto cinematografico ricrea un ambiente tipico dell’Irlanda del 1923: poche case di pietra annerite, un pub, un emporio, un porticciolo e parecchi personaggi afflitti tutti, come i protagonisti, dalla solitudine “dell’isolano”, temperata solo dalla devozione degli animali, cani, asinelli o pony che siano. Ecco allora, tra i personaggi tutti lodevolmente interpretati, la sorella di Padraic, buona, istruita, indipendente, il cosiddetto scemo del villaggio che tanto scemo non è, il poliziotto violento e opportunista, la negoziante impicciona e la “strega” vestita di nero, presenza inquietante, messaggera di morte. Chissà se l’anima di Colm finirà per fondersi con lei, nel finale, aperto ma anche criptico, del film, che lascia sperare solo gli ottimisti in una riconciliazione impossibile.
Il film merita di essere visto, se non altro per l'originalità della sceneggiatura e la fotografia, che indugia sui vetri delle finestre, metafora della finta trasparenza che c'è tra le persone. Fatte le debite avvertenze per persone sensibili…
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