Per quanto negli ultimi anni abbia imparato a fidarmi sempre meno del giudizio dell’Academy, 13 nomination agli Oscar non passano di certo inosservate. Eppure, una motivazione a tutta questa generica esaltazione fatico a trovarla.
Il film è un prodotto discreto magistralmente impacchettato in una componente tecnica di notevole spessore. La fotografia e la scenografia ci regalano un’estetica che impatta con audace violenza sullo spettatore, lasciandolo attonito di fronte a colori sgargianti sfumati da giochi di ombre e davanti a micro (e macro) cosmi ricostruiti minuziosamente. Il contenuto, però, non risulta all’altezza di tutto ciò che lo circonda.
La trama, che si presenta come un’alternativa fiaba d’amore improntata sul tema della diversità, è debole e scontata: The shape of water rimane fossilizzato negli schemi narrativi del genere e ingarbugliato tra i relativi snodi fondamentali, faticando nel superare il minimo indispensabile quantitativo emozionale necessario allo sviluppo di ogni fiaba che si rispetti. Inoltre, il tentativo di distaccarsi dai canoni tradizionali del personaggio fiabesco finisce per far cadere i propri nel banale, amalgamandoli al cliché generale che predomina su tutto l’intreccio. L’altissima volontà morale che sta alla base del film e il gioco tra la crudeltà del mondo reale e la purezza di un amore fiabesco si vanno così perdendo in una trama caratterizzata da incertezze e banalità.
Da salvare sono sicuramente le ottime prove attoriali, che ridanno alla storia quel poco di credibilità in più: Sally Hawkins tra tutti ci regala una performance eccelsa, caratterizzata da una meravigliosa capacità espressiva e comunicativa in grado di compensare ampiamente l’assenza della propria voce dovuta al mutismo del suo personaggio.
Complessivamente un film piacevole da vedere ma niente di più, ampiamente distante dalla definizione di capolavoro che tutti quanti gli stanno attribuendo.
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