Empire of Light

   
   
   

Due oscar a Olivia Colman e a Roger Deakins Valutazione 0 stelle su cinque

di francesca meneghetti


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giovedì 17 agosto 2023

 Quando vidi il trailer, mi attrasse la fotografia, che enfatizzava la vista sul lungomare, a partire da un cinema in decadenza, l’Empire. Si intuiva poi che questa era la scena in cui si sviluppava una storia d’amore tra due persone molto diverse tra loro, entrambe segnate dalla solitudine: Hilary, vicedirettrice dell’Empire, cinquantenne, e Steven, un giovane nero che non è riuscito a entrare nel college. Poi, che si voleva rendere omaggio alla magia del cinema, come hanno fatto altri registi prima di Sam Mendes (Tornatore, Spielberg…).
La visione del film in parte conferma le aspettative, in parte no. Dieci e lode, anzitutto, alla fotografia di Roger Deakins (candidato all’Oscar). Corrisposta l’aspettativa su una love story che, se poteva essere trasgressiva rispetto a certi canoni tradizionali, relativi all’età e all’etnia dei membri della coppia, ha finito per essere canonica e scontata nel cinema “trasgressivo”. Ma la riscatta la straordinaria interpretazione di Olivia Colman, mentre di Michal Ward si può dire soprattutto che è un bel ragazzo. Tuttavia non è una vicenda di fast sex: c’è molta empatia, comunicazione, tenerezza tra le due creature.
Ma è tempo di accennare alla storia. Siamo nell’Inghiterra (Devon? Kent?) dei primi anni ’80. Vale a dire governo Thatcher, recessione, tensioni razziali. L’Empire ha conosciuto tempi migliori, come testimoniano delle sale abbandonate, una anche con funzione di bar, con vetrate sull’oceano. La dirige Donald Ellis (Colin Firth), ma a coordinare la squadra affiatata di dipendenti, tra cui si rileva una ragazza punk, secondo i tempi, è Hilary, con un passato difficile alle spalle (ma quando mai i protagonisti dei film hanno avuto un’infanzia felice?), impegnata a contrastare, oltre alla solitudine, la depressione. Della sua fragilità si approfitta naturalmente il direttore. L’entrata in scena di Steven, neoassunto, determina cambiamenti sia nelle relazioni tra i personaggi, perché lui e Hilary si intendono al volo, sia nel quadro tematico, dove irrompe l’elemento razziale, che ha dei momenti iconici (la scena del cliente che non accetta che Steven gli proibisca di entrare, come da protocollo, con il cartoccio di patatine), e altri momenti drammatici più scontati.
La mia impressione è che la sceneggiatura sia sovraccarica e che comporti delle sequenze troppo lunghe e insistite, così da far sentire allo spettatore il tempo che passa. Però l’interpretazione di Olivia Colman, qui ingolfata in abiti larghi, un po’ sovrappeso, capelli trasandati, è da Oscar (ma è molto bravo anche il caratterista Toby Jones). Idem la fotografia. 

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