La zona d'interesse

Un film di Jonathan Glazer. Con Christian Friedel, Sandra Hüller, Johann Karthaus, Luis Noah Witte.
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Titolo originale The Zone of Interest. Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 105 min. - Gran Bretagna, Polonia, USA 2023. - I Wonder Pictures uscita giovedì 22 febbraio 2024. MYMONETRO La zona d'interesse * * * * - valutazione media: 4,13 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Fin dove attiva la confort zone

di francesca meneghetti


Feedback: 7166 | altri commenti e recensioni di francesca meneghetti
martedì 27 febbraio 2024

Dubito che stasera farò sonni tranquilli: lo appena visto un film sulla Shoah, La zona di interesse. Ma un film che non mostra la Shoah, non riprende scene di violenza, esecuzioni, corpi martoriati. Non si vede nulla. Quello che si vede, anzi, è idilliaco. Un paesaggio naturale rigoglioso, solcato da un fiume. Un giardino fiorito e curato, con serra e piscina, una casa linda dove si aggirano, oltre a numerose donne di servizio, cinque bambini e due genitori, con un padre molto affettuoso.
Quello che si sente, e da cui deriva un’inquietudine che scivola verso l’inconscio, è ben altro: è un tappeto sonoro inquietante, che inizia prima delle immagini, un tappeto che mescola fragori metallici, rombi cupi, ordini urlati, latrati di cani, grida di disperazione, spari. Onore, nonostante il malessere soggettivo, alla cosiddetta colonna sonora di Mica Levi e al sound design di Johnnie Burn!
Spieghiamo: la graziosa casetta con giardino è la residenza di Rudolf Höss, il primo comandante di Auschwitz, ideatore di un sistema scientifico ed efficiente di eliminazione dei prigionieri. Höss non è un sadico, ma trovo inquietante appiattirlo con la formula, diventata virale nei commenti su questo film, della “banalità del male” (che Hannah Arendt scrisse attorno al processo di Eichmann, e che i più, immagino includendomi, non hanno letto per intero). Intendo dire che di Höss non viene evidenziata tanto la sua acquiescenza rispetto agli ordini, quanto il suo profilo manageriale.
Ciò che fa della Shoah un unicum non è tanto il fatto di rappresentare un genocidio (che è diverso comunque, non certo per efferatezza, dalla strage di innocenti compiuta nel corso di un’operazione bellica o terroristica), quanto il fatto di essere stata progettata con logica tecnico-scientifica, con efficienza, ordine, meticolosità. E senso del profitto: perché la forza--lavoro dei deportati in forze serviva a sostenere, in modo schiavistico, la macchina bellica della Germania. Höss sarebbe oggi un ottimo CEO, secondo la logica del capitalismo, che però oggi ha a che fare con capitali, merci, e una forza-lavoro mediamente tutelata, nei paesi occidentali.
Il comandante perfetto di un lager nazista si concentra sul come, non sul perché, non sulla liceità dei mezzi. Eppure anche l’irriducibile Höss (che fu alla fine processato proprio ad Auschwitz), nel film avverte delle crepe. O meglio, delle crepe si leggono nei suoi familiari, soprattutto nei bambini, visto che la moglie è quella che maggiormente incarna l’Indifferenza per antonomasia (sembra insensibile agli odori, al fumo, ai rumori, gode a indossare la pelliccia di un’ebrea e vivere un’esistenza privilegiata). I bambini invece sono disturbati, sono ossessionati, specie di notte, dai rumori cupi. E non sempre le fiabe che il buon papà Rudolf legge sono rasserenanti, se alludono, come nella storia di Hansel e Gretel, ai forni (dove finì la strega cattiva). Una delle più grandi, se ho ben capito, è tormentata da incubi, raffigurati da scene notturne in cui una ragazza, bianca e lunare, si aggira attorno al campo, con aria cospirativa. La suocera, venuta in visita, fugge dopo una notte allucinante. Lo stesso Höss ha problemi, veri o immaginari, di salute. E vomita, forse pensando a quei corridoi tenuti lustri e puliti da uno stuolo di donne, ma che si affacciano, tramite le vetrate, su mucchi di scarpe e di oggetti appartenuti alle vittime.
Queste ultime scene richiamano le riprese cinematografiche nel campo di Bergen Belsen effettuate dal regista Sidney Bernstein nel 1945, su consiglio di Alfred Hitchcock. Ma c’è di più: nel docufilm, terribile nella sua cruda verità, il regista dichiarava: “Volevamo sapere sei tedeschi attorno sapessero”. L’idea di Hitchcock fu la seguente: tracciare dei cerchi concentrici intorno al campo di 1, 2, 10, 20 miglia e fare quindi affluire comuni cittadini al campo dalle diverse distanze. Le persone che abitavano più da vicino, in belle case, circondate da prati e alberi fioriti, e che in teoria dovevano essere consapevoli di ciò che accadeva oltre il muro di cinta, arrivavano allegramente, quasi in gita, e osservavano con curiosità paralumi confezionati con lembi di pelle umana tatuata. Le più ciniche, duole dirlo, erano le donne. Molto simili, per assenza di empatia, alla moglie di Rudolf, interpretata dalla sempre brava Sandra Huller. Interessengebiet (zona di interesse) era l’area di circa 40 km quadrati attorno a due dei tre lager principali (Birkenau e Auschwitz). C’è un’analogia con l’idea di Hitchcock, che porta però a una sconfortante conclusione comune: sapere, intuire che qualcosa di orribile accade, anche da vicino, non sempre basta a far uscire le persone dalla propria confort zone, dove l’egoismo regna sovrano. Non è una conclusione edificante, ma è realistica e fa riflettere. Non è il mondo che vorremmo, direbbe Machiavelli, ma quello che è.
Questo film potente e imperdibile di Jonathan Glazer colpisce anche per alcune scelte tecniche: le macchine fisse, le luci naturali (oltre al sonoro di cui si è detto), ma soprattutto per aver sposato la figura retorica dell’antitesi, inquadrando prato fiorito, bambini, donne, piscina, con un muro sullo sfondo oltre il quale si alzano le colonne nere di fumo.

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